sabato 7 maggio 2011

FANTASTICHERIA (parte seconda)

Mi risvegliai, in effetti, dopo un tempo che mi apparve lunghissimo, ma non fu un risveglio come quello che fa seguito al sonno. Sentivo, ancora prima di vedere, il gorgogliare di un filo d’acqua che fuoriusciva da un rubinetto. Mi ritrovai curvo su di un lavandino, con le mani raccoglievo l’acqua per rinfrescarmi il viso. Ma dove mi trovavo? Alzai lo sguardo, vidi uno specchio che rifletteva la mia immagine. Era uno specchio sbilenco, con la cornice rotta in più punti, venato lateralmente. Ma ero davvero io? Quanti anni potevo avere? L’immagine restituita dallo specchio era quella di un ragazzo di circa diciotto anni, con i capelli divisi in due bande bionde e, sotto, un paio di occhiali. Mi guardai intorno. La stanza da bagno dove mi trovavo era malandata, in totale disordine, un mucchio di ciarpame era abbandonato in un angolo, tutto era sudicio e trascurato. Sentivo delle voci, al di là della porta sbeccata. Mi trovavo nella sede del C.A.S., il Comitato Autonomo di Sampierdarena, il quartiere dove risiedevo. Ero in una delle sedi di Autonomia Operaia, una formazione della sinistra extraparlamentare degli anni settanta. La luce ed il fumo filtravano da sotto la porta chiusa del bagno. Di là, come tante altre volte, si ritrovavano i miei compagni di allora, in una sala non antica, semplicemente vecchia, con uno strano arredamento rococò, ereditato chissà come dal precedente proprietario. Seduti attorno al tavolo tra piatti da lavare e portacenere da pulire, stavano cinque compagni, il nucleo che frequentavo più assiduamente. Non credevo alle mie orecchie, uno di loro, il più giovane di noi, parlava infervorato e, come temevo, parlava proprio di me. “Ma allora non avete capito, l’ho visto con i miei occhi, entrare nella sede dei fascisti, erano quelli di Ordine Nuovo!” – “Ma allora non hai capito niente,” ribatte un altro “guarda, ce ne ha già parlato, e tu eri presente. Si tratta di un progetto ancora in formazione, ma è una cosa seria. Stiamo cercando dei punti di contatto, qualche denominatore comune che possa farci portare avanti una lotta solidale contro lo stato borghese, invece di seguitare a farci la guerra!”. “Balle!” – risponde l’altro. “Un fascista è sempre un fascista, non può esserci dialogo.” “E poi” – aggiunge un altro – “ricordiamoci che anche i nostri vertici hanno abbandonato il marxismo ortodosso, e stanno cercando una via alternativa alla lotta di classe”. Io, da dietro la porta, tremavo come una foglia. Sapevo che stavo correndo un grosso rischio. Soprattutto quello di essere frainteso, di non essere capito dai miei stessi compagni. Da qualche tempo, inseguivo il sogno, indicato da qualche dirigente dell’Università di Padova, di chiudere il cerchio dell’estremismo ed arrivare ad una strana alleanza con le frange più estreme della destra di allora, una sorta di sintesi superiore, superando le ideologia ingessate del comunismo e del fascismo e aprendo la strada ad una terza via dell’Autonomia. “Guardate che quel porco fa il doppio gioco, ve lo dico io,con tutte le sue arie da intellettuale! Ma lo vedete alle manifestazioni? Evita sempre il contatto con i fasci e con la polizia, scrive articoli che capisce solo lui, fa acute analisi su tutto e tutti. Ma non lo capite che il suo comportamento è ambiguo, che fa il doppio gioco?”. Sentii gli altri che mi difendevano debolmente, sempre più flebilmente…Ma io sapevo che non era così, io conoscevo perfettamente la mia buona fede, credevo realmente nella possibilità di riuscita della mia opera, ma, nello stesso tempo conoscevo i pericoli di un simile atteggiamento, i miei compagni di allora erano troppo lontani dalla cultura dell’analisi politica, avevano solo voglia di menare le mani, era un modo per veicolare all’esterno la propria aggressività, i propri conflitti, era un modo per trasformare in pubblico e politico, quello che era solo un tormento interiore. Aprii di scatto la porta, facendo balzare in piedi tutti e cinque i miei compagni: il più giovane sbiancò in volto, mormorando qualcosa a qualcuno alle mie spalle. Prima che potessi proferire parola un colpo alla nuca, inferto da un oggetto contundente, fece diventare tutto buio attorno a me, chiuse nelle tenebre le parole che stavano per uscire dalle mie labbra.
Uno scossone, improvviso ed inatteso, mi svegliò di colpo, udivo, intontito e confuso, lo sferragliare del treno sui binari, il capo, che prima poggiava sullo schienale del sedile di prima classe, iniziò a ciondolare a destra e sinistra. Aprii alfine gli occhi, non più abituati alla luce, seppure tenue, dello scompartimento. Davanti a me, statuari e impassibili, stavano due prelati, entrambi monsignori, a giudicare dalla talare che vestivano, nera con la fascia violetta alla vita, le scarpe di vernice nera con fibbia d’argento, le calze di seta del medesimo colore della fascia, la beretta pure viola, spiccava luccicante sui loro crani. Uno di loro leggeva il breviario, l’altro guardava distrattamente fuori dal finestrino. Ed io, con la bocca impastata e le membra rattrappite dallo scomodo riposo sul sedile, mi portai istintivamente una mano al collo: un collarino da novizio me lo serrava. Guardai il resto del mio abbigliamento, senza capire, portavo un clergy men con una camicia carta zucchero, il crocefisso sul bavero della giacca. Non sapendo bene cosa fare o cosa dire, finsi di continuare a dormire. Il Monsignore, ora lo riconobbi, che guardava fuori, era il mio docente di dogmatica al Seminario Maggiore della mia città, l’altro, che pure dovevo conoscere, non lo riconobbi. Il mio Monsignore, che era anche il mio direttore spirituale, il mio mentore e il mio pigmalione, diede una gomitata all’altro prelato: “Quanto manca a Roma Termini?” – “Beh, credo che siamo quasi arrivati…piuttosto, credi sia stata una buona idea quella di portarci appresso anche lui?”. “Penso di sì. E’ un giovane promettente, lo sai. Ho molta fiducia” rispose l’altro. Io continuai a fingere di dormire. Ero entrato in seminario due anni prima, ma avevo una gran voglia di scappare via, lontano lontano, via da quei saloni inutilmente sfarzosi, popolati da anime grigie, incolori, spente, i seminaristi vi scivolavano come apparizioni inquietanti, i gesti e le parole si ripetevano ogni giorno sempre uguali, senza un barlume di verità, senza la luce della vera fede, non c’era vita per quelle stanze plumbee e tetre, nella mia mente continuavano a mulinare le parole di matteo….”cercate il Regno di dio e la sua Giustizia”, cercate il Regno di Dio e la sua giustizia, continuavano a rimbombare nella mia mente, queste parole, che cercavo di capire e interpretare, che mi facevano comprendere ogni giorno di più quanto fosse ormai distante da me il cattolicesimo. Ed ora, questo viaggio a Roma, al seguito del mio Monsignore, in qualità di suo segretario particolare. Ormai, da qualche mese, ero rassegnato a restare solo per lui, che aveva creduto in me sin dall’inizio, sebbene sapesse bene che la mia fede nella chiesa romana vacillava di giorno in giorno. La sua, nonostante vacillasse da tempo, sino a perdersi completamente, non gli impediva di continuare a vestire l’abito e a nutrire la sua smisurata vanità. Da molto tempo i suoi discorsi prendevano una preoccupante piega verso un paolinismo di tipo protestante, ed io, pur sapendolo bene, seguitavo a stargli a fianco, ero diventato il suo delfino, e un giorno, se avessi portato a termine il disegno che Dio, secondo lui, aveva disposto per me, avrei potuto prendere il suo posto e seguitare la sua opera. Ma il suo collega non era dello stesso avviso. “Però” disse a bassa voce, “il suo passato, insomma…era un estremista, un marxista, lo sai meglio di me, non depone suo favore, e poi, non dico di no, ha una intelligenza brillante ed una bella presenza, non lo discuto, ma lo vedo sempre più chiuso in se stesso, ho notato che durante l’ultima celebrazione non ha neppure aperto bocca. La sua fissazione sull’epistola ai romani non vorrei che lo portasse sulla cattiva strada. Il suo percorso è ancora lungo, e non sappiamo neppure se lo porterà a termine. Era proprio necessario portarlo con noi?” “Fidati”, rispose l’altro, “ Lo conosco bene, è la persona di cui mi fido di più. Mi segue come un’ombra, ci intendiamo solo con lo sguardo, ha buone maniere e stile, l’abito gli sta proprio bene. Non ci farà sfigurare. E poi, mio caro, non mi venire a parlare di San Paolo. Quanti di noi non hanno avuto e non hanno tuttora qualche visione eterodossa…ma la Chiesa è una grande madre che tollera l’errore di un’ora e anche di un giorno, pur di sapersi  emendare…” Eravamo ormai nei pressi della stazione romana, sentivo i clamori e il vociare della monumentale stazione, il treno rallentava, tra qualche secondo sarei stato costretto ad aprire gli occhi, non sapevo come fare, non sapevo cosa dire, avevo un gran voglia di scappare. Poi, all’improvviso, qualcuno tirò il freno d’emergenza, ed il convoglio si fermò con un tale stridore di freni da apparire come un animale ferito che stesse urlando tutta la sua sofferenza. Dopo qualche interminabile secondo, finalmente, se Dio volle, il treno si fermò e quando riaprii gli occhi lo scompartimento era vuoto e i due prelati erano spariti. La brusca frenata mi fece sbalzare dal sedile e urtare con il capo la maniglia della chiusura dello scompartimento: il colpo mi diede le vertigini, vidi volteggiare tutto attorno a me, e poi più nulla.
Quanto durò il mio sonno? Chi può dirlo? Aprii gli occhi di colpo, trovandomi in un comodo letto, e tutto intorno a me era perfettamente buio. O meglio, solo una sottile lama di luce fredda azzurrina filtrava da quella che poteva essere una finestra, sopra il mio capo. Dove mi trovavo? Mi alzai lentamente, ero vestito quasi completamente. Curioso. Accesi la luce. Era una stanza d’albergo, dai pieghevoli che trovai sulla scrivania, seppi di trovarmi a Venezia. Venezia! Ora ricordo…Andai in bagno per guardarmi allo specchio. Potevo avere 25 anni, ero il capocomitiva di una gita scolastica, accompagnavo con alcuni colleghi diverse classi quarte e quinte dell’istituto dove insegnavo. Uscii nel corridoio, muovendo i primi passi nel corridoio, dove incrociai un collega di Fisica, in pigiama, che mostrò di non riconoscermi neppure. Scivolò come un’ombra lungo la parete, infilando la porta della sua stanza silenziosamente. Udii, neppure troppo lontano, un vociare confuso, risate contenute a stento, una musica da discoteca, in voga in quegli anni. Doveva essere notte inoltrata, o mattino prestissimo, perché dai finestroni sopra la mia testa, pareva baluginare un principio di aurora. Individuata la camera dalla quale proveniva tutto quel frastuono, comincia a camminare in quella direzione, quando, passando accanto ad una camera qualsiasi, sentii pronunciare distintamente il mi nome. Mi fermai di colpo, incuriosito. Due ragazze parlavano sottovoce, ma abbastanza distintamente da mettermi nella condizione di cogliere quasi tutte le parole dei loro discorsi. “Ma a te piace?” disse una delle ragazze. Il mio cuore ebbe un tuffo, la riconobbi, era una alunna di una quinta, aveva già compiuto i diciotto anni, la stimavo come una della migliori allieve in assoluto, tra l’altro era una delle rappresentanti di Istituto. “Ma dai, come vuoi che possa piacermi” disse l’altra “E’ praticamente un vecchio!” – “ma dai, vecchio” fece l’altra “avrà ventisei anni. Io ci farei qualcosa…” – Ci fu una pausa, poi l’altra riprese “ma non ti rendi conto? Dà confidenza a tutti, parla con tutti, sembra faccia il confessore. Poi qualche fesso si confida pure con lui, per poi essere magari sputtanato. Si mette troppo in mostra, è un narcisista, secondo me non vuole bene a nessuno,anche se sembra interessato a tutto quello che facciamo. Quello ama solo se stesso, è un egoista e un egocentrico. Ma lo sai che una volta l’ho visto nella discoteca P., sì, proprio quella, in mezzo ad un gruppo di alunne. Ma ti pare serio, un professore in discoteca con i suoi alunni!” – “Guarda, ribattè l’altra ragazza – “Ci metterei la mano sul fuoco, non si è fatto nessuna di noi. Questo non lo credo. Certo, non hai tutti i torti. Sai cosa c’è? E’ che si vede che non crede più in quello che dice. Ma lo hai mai visto un insegnante di religione così? Si vede benissimo che è un ipocrita. Non parla quasi mai direttamente di religione, divaga…parla di attualità, di cronaca, dei fatti suoi, insomma ma chi cavolo glielo fa fare di continuare così…” Mi bastava. Non potevo più andare oltre. Smisi di origliare e tirai diritto per il resto del corridoio. Avevo gli occhi che mi bruciavano di angoscia e di rabbia. Era dunque così? Avevano ragione le due ragazze. Ero diventato un ipocrita egoista che pensava solo a se stesso? Scesi nella hall, ciondolando sulle scale come una marionetta, la passatoia attutiva i miei passi, andai oltre la stanza dalla quale proveniva il clamore. La reception era deserta, il portiere di notte non c’era, o era addormentato da qualche parte. Non potei fare a meno di osservare l’arredamento, particolarmente brutto, datato, i divani avevano bisogno di essere ritapezzati, la moquette consunta e di un orribile color cammello, il bancone centrale che aveva bisogno di un restauro urgente. Doveva trattarsi di un albergo a due stelle, di quelli adatti a ricevere le comitive degli studenti, che come sempre, non trascurano di lasciare qualche indesiderata traccia del loro passaggio…Uscii fuori, attraverso la porta girevole, sullo spiazzo davanti all’entrata. Al di là di una aiuola centrale, con una fontana al centro, stava, immobile, il pullman che ci aveva accompagnato. Faceva freddo, era molto umido. Respirai a pieni polmoni, sospirai, anzi, per placare la delusione che mi cresceva dentro. Una tristezza infinita, lontana, antica si stava impadronendo di me, non so per quale motivo. Mi sentii vecchio e stanco, come se i miei venticinque anni di allora fosse i cinquanta di adesso, non avevo avuto neppure voglia di specchiarmi, a pensarci, per vedere il mio volto di allora. Mossi qualche passo verso una panchina, cominciava ad albeggiare, le prime luci cominciavano a farsi strada dai monti circostanti nella caligine che mi circondava. Ad un certo punto, mi alzai dalla panchina, e mi diressi verso la fontana, al centro dell’aiuola. Mi sentivo triste, sentivo un dolore sordo dentro di me, un dolore che nessun rimedio di cui ero capace avrebbe potuto attenuare. Sentivo la vanità di quei monti lontani e di quel cielo saturo di nuvole sopra di me. Mi chinai sul getto della fontana, per raccogliere un po’ d’acqua e rinfrescarmi il volto. L’ultima cosa che vidi fu il portiere di notte che mi chiamava a gran voce, per segnalarmi  non so che cosa. Scivolai lentamente nella vasca, dolcemente, senza dolore, come scivolavo, quando ero bambino, nella vasca da bagno ricolma dell’acqua calda che mia madre aveva appena preparato per me.  (Continua)