venerdì 29 aprile 2011

MEDICI

Quanti medici ho conosciuto nella mia vita? Quante volte ho avuto bisogno di loro, io o i miei cari, per quante volte abbiamo avuto necessità di ricorrere a strutture ospedaliere pubbliche, quante sale d’attesa, quanti ambulatori, quanti approfondimenti diagnostici, quanta pena, ansia, trepidazione di fronte ad un referto? Molte, come per tutti, del resto. Ricordo, una notte del 1966, ero un bambino, una telefonata ci sveglia nel pieno del sonno, dobbiamo correre all’ospedale, mio padre ha avuto un incidente sul lavoro, in quegli anni esisteva ancora il cottimo, i turni erano spietati, soprattutto le notti, costretti a mantenere ritmi di produzione sempre più inarrivabili. Arriviamo all’ospedale, mio padre ha un braccio sbriciolato, è evidente che potrebbe perderne l’uso. Poi mesi e mesi di interventi, ricoveri successivi, terapie riabilitanti, e, alla fine di un lunghissimo percorso, il ripristino pressocchè completo dell’arto. Mio padre non fu operato da clinici famosi, luminari illustri, eppure, il chirurgo misconosciuto che operò in diverse circostanze mio padre compì una specie di miracolo. Il suo nome restò nell’ombra, ma noi fummo eternamente grati a quest’uomo dalla straordinaria abilità. Poi, di converso, siamo nel 2006, sempre mio padre viene ricoverato per una banale enterite, ma non nel suo naturale reparto, gastroenterologia, ma in Medicina Generale, il reparto di quelli che non trovano posto altrove, un recipiente che contiene un po’ di tutto e dove tutto è immerso nella più assoluta confusione d’idee. Dopo i primi giorni mi rendo conto che le cose vanno male: nonostante le mie raccomandazioni di somministrargli le sue terapie abituali, i sanitari del reparto, per non sbagliarsi, sospendono di colpo tutti i farmaci cui era abituato. Poi, nel giro di pochi giorni, la situazione precipita: mi rendo conto che a mio padre è stato somministrato uno psicofarmaco pericolosissimo per gli anziani: il nome è rassicurante (Serenase),ma nella realtà si tratta di un neurolettico, utilizzabile solo nelle psicosi agitate, ma largamente utilizzato nelle corsie ospedaliere quando un paziente non tollera i comuni ansiolitici (le benzodiazepine) e rompe le scatole. Questo farmaco, l’aloperidolo, può causare la “sindrome neurolettica maligna”, quella che ha colpito mio padre. Discinesie al volto, distonie agli arti, febbre, nausea, vomito, crisi ipotensive, fluttuazioni dello stato di coscienza, fino all’exitus. Mio padre presentava tutti i sintomi di questa sindrome. Eppure, nonostante le mie ripetute segnalazioni, il primario, un uomo stanco, demotivato, sciatto e superficiale, continuava a ripetermi,come un disco rotto, che sono un emotivo, la situazione era sotto controllo. Il reparto era cadente, aveva bisogno di manutenzione urgente, poco pulito e trascurato. Dopo due settimane mio padre muore, nella notte, in seguito a “shock cardiogenico”una diagnosi che vuol dire tutto e nulla. Io, l’emotivo, avevo ragione, il primario, un omuncolo ridicolo, aveva torto. Per pararsi le terga dispose senza il mio consenso l’autopsia, nella speranza che saltasse fuori qualcosa che potesse motivare altrimenti il decesso. Non venne fuori niente di particolare. Consultai avvocati e medici legali, per ricavare la stessa, impietosa diagnosi: non mi conveniva fare nulla, avrei certamente perso dinanzi alla casta medica, il mio non era un caso da prima pagina, mio padre era una persona anziana. Avrei speso tempo e soldi inutilmente. Due casi opposti, capitati alla stessa persona, con la differenza, però, che l’occasione positiva è capitata nel 1966, quella negativa nel 2006. Forse non si tratta di una coincidenza. La medicina, a quel tempo, erano ancora gli anni del boom, era concepita ancora come qualcosa di serio, cui dedicare gran parte della propria esistenza, consapevoli di fare qualcosa di veramente importante per gli altri, di avere tra le proprie mani il futuro o la fine di un altro essere umano. Forse, allora c’erano meno medici cacciatori di soldi, meno “professori” divenuti tali con le pubblicazioni prese a prestito o addirittura plagiate da altri. Forse era così, forse no, è solo un’illusione, dovuta al fatto che ero troppo piccolo per capire quello che succedeva attorno a me.
Ma il problema, comunque, rimane: troppe persone intraprendono la professione medica non per una reale propensione, una inclinazione naturale a questo tipo di mestiere. Troppi si iscrivono e macinano un esame dopo l’altro, solo perché figli o nipoti di medici affermati, con la sicumera di saltare al gavetta, di ereditare uno studio avviato, con la convinzione di continuare, nel solco del padre, la tradizione di famiglia. E’ vero, nessuno lo mette in dubbio, le strutture pubbliche, ambulatoriali e ospedaliere, le aziende Sanitari Lcali, pensano solo a fare cassa, devono razionalizzare, contenere la spesa, tagliare i rami secchi, chiudere presidi al di sotto di un certo bacino di utenza, gettare nella bolgia infernale del Pronto Soccorso, giovanotti appena laureati, che non capiscono neppure bene quello che stanno facendo, frastornati, disorientati, prontissimi a sbagliare, a sbagliare pesantemente, sulla vita degli altri. Se passo in rassegna i medici che ho incontrato nella mia vita, mi viene spontanea la distinzione, forse ovvia, tra il medico professionista e l’uomo. Persone simpatiche, affabili, garbate, che però, indossato il camice diventano pressappochisti, faciloni, trascurati e inconcludenti. Quante volte, quando nostro padre o nostra madre sono stati costretti ad un ricovero, alle nostre ovvie domande, ci siamo trovati di fronte un sanitario inalberante un’aria del tipo “ma che pretendi, quanti anni ha tua madre? Quanti? E allora, più che anziani non si diventa…” Già, quante volte. Non posso non ripensare alla vicenda,magistralmente descritta da Nanni Moretti nell’ultimo episodio del film “Caro diario”, dove il registra, che interpreta se stesso, descrive la tragicomica avventura occorsagli diversi anni or sono, quando, affetto da una sindrome apparentemente di competenza dermatologica, ha impiegato un anno intero per arrivare alla diagnosi vera: quella del linfoma di Hodgkin. Un anno prezioso sottratto alla terapia, un anno trascorso da uno specialista all’altro, uno più asino dell’altro, in un carosello di terapie strampalate e a volte dannose, quando poi, alla fine, aprendo l’enciclopedia Garzanti della medicina, la sintomatologia di Moretti è descritta nei termini esatti nei quali il registra li descriveva ai vari luminari. Forse, si chiede Moretti, se questi medici avessero letto la garzantina di medicina, oltre agli indigesti tomi di anatomia patologica, si poteva pervenire prima alla diagnosi. Ora, Nanni Moretti è stato fortunato, il suo linfoma era del tipo “Hodgkin”, se avesse contratto quello “non Hodgkin”, probabilmente non sarebbe neppure più in vita. Ma questo, si dirà, è uno dei frutti maturi e sozzi del capitalismo, una dottrina socioeconomica che pone alla sommità dei valori non già la vita umana e la sua preservazione, ma il profitto, il guadagno, i dané. E allora il medico, che un tempo era considerato un po’ come il dottor Mason del romanzo “La cittadella”, si è  messo al pari con i tempi, assimilandosi ad analoghi “professionisti”, poco fatturatori e grandi evasori: commercialisti, avvocati, notai e via discorrendo. Quando entri nello studio di uno di questi baroni luminari, lo fai in punta di piedi, come se il denaro che tra poco metterai in mano del valente clinico, non fosse moneta sonante, ma sterco del diavolo, diamine, da lui dipende la tua vita o la tua morte, lo guardi come un oracolo, nel suo camice bianchissimo, lo sguardo severo, le parole scandite con cura e affettazione, il tono ieratico, asseverativo, che non ammette repliche. “Ma ci sono speranze?” “Ah, signora, in casi come il suo è difficile fare una previsione sicura, due mesi, forse tre. Ma vale la pena di tentare con un chemioterapico nuovo, appena licenziato da una grossa casa farmaceutica che ha fatto ricerca proprio sulla sua malattia”. Ecco, il nuovo ritrovato che potrebbe accendere una  speranza, per quanto flebile. Poi, se hai le competenze o la voglia di approfondire, ti rendi conto che il principio attivo di cui ti ha favoleggiato l’illustre personaggio, o è una minestra ribollita, o è il solito anticorpo monoclonale, che ha il solo pregio di costare un patrimonio al Sistema Sanitario Nazionale, e in termini di sopravvivenza di farti guadagnare qualche settimana di sofferenze atroci. Come si deve sentire un uomo, una volta indossato il famoso camice, seduto dietro la scrivania di ebano finemente intarsiato, arbitro della vita o della morte?  Come si deve sentire quando tu che gli siedi di fronte pendi dalle sue labbra, attendi spasmodicamente il verdetto che presto il luminare emetterà. Deve essere una sensazione piacevole, di potere quasi assoluto, di fronte a lui non ci sono imprenditori o muratori, c’è seduto un uomo che attende il verdetto, e la morte che decreti arriva come una “livella”, non fa distinzioni sociali. E fortunatamente non ne fa neppure con l’illustre clinico, che una volta colpito anche lui, comprende di colpo, come uscendo da una sbornia notturna, la realtà delle cose, la verità ultima con la quale tutti, prima o dopo siamo costretti a confrontarci, camice o non camice, la falce passa sulle teste di tutti noi. Ripenso all’ultima esperienza, capitata proprio a me e non ancora conclusa. Tre su quattro degli specialisti interpellati si sono comportati come altrettanti imbecilli, tronfi e supponenti. “No, no, niente, niente.” Come niente, ma dottore di che si tratta? “ “Ma, potrebbe essere un carcinoma basocellulare, ma non sono sicuro. Non si impressioni è un tumore benigno”. Poi vai a casa e scopri una cosa che sapevi benissimo anche prima: un carcinoma non può essere un tumore benigno. Ecco, il luminare ha buttato lì una diagnosi, convinto di avere davanti a sé una persona che, tanto, di queste cose non capisce nulla. Un altro specialista, oltre al solito “no no, niente, niente…” di fronte alla mi obiezione che, nonostante i miei sforzi, non sono stato in grado di trovare la voce “niente” sull’enciclopedia medica, butta lì un'altra termine a caso una parola difficile, fornendomi una spiegazione diametralmente opposta a quella che corrisponde effettivamente a quel termine. Che cosa fa di un medico un buon medico: certo la perizia, la competenza, gli studi, ma anche saper comunicare con il paziente, che non deve sentirsi una nullità che arriva da te con il cappello in mano, per sentire il tuo verdetto e metterti nelle mani alcune banconote che avrai cura di riporre nel cassetto, dopo aver formulato la domanda di rito: “Le serve al ricevuta?” No, ma che ricevute, sono fiero di pagare le tasse al tuo posto, te lo meriti, sei un barone, non hai un cuore e forse neppure un cervello pensante, è sacrosanto che tu possa evadere e abbia la possibilità di arricchirti sulle disgrazie degli altri tuoi simili. Sì, simili, perché non ti dimenticare mai, arbitro in terra della vita e della morte, che un giorno ci starai anche tu dall’altra parte della scrivania, e  a quel punto , forse, comprenderai anche tu che hai vissuto una vita priva di senso, fatta di ricchezze materiali ed effimere, e adesso che ti trovi tu , nudo, indifeso, davanti agli ultimi momenti, non sei in grado di aggrapparti a nulla, non alla fede, perché non c’è nella di più anticristiano del tuo comportamento, non agli amici, pronti solo a ridere e a scherzare con te, quando eri un brillante clinico, ma non adesso, che sei un rottame da sostituire, ora che ci sei tu sull’orlo dell’abisso, comprendi che la tua vita è stata priva di senso, che il male che hai radunato, con la tua cupidigia, la tua avidità, è qualcosa di irredimibile, di inemendabile, che potrà solo precipitarti in uno dei gironi infernali più vicini all’angelo del male. Un buon medico sa comunicare con il paziente, non deve consolarlo, ma cercare di spiegargli, con parole comprensibili, di che si tratta, senza nascondersi dietro inutili paroloni, deve lasciare aperta sempre una poeta alla speranza, perché nessun essere umano, dico nessuno, è in grado di stabilire quanto ti resta da vivere. Formulare una ipotesi di mesi o anni è quanto di più antideontologico possa compiere un medico.
Quanto medici allora ho conosciuto, maldestri, goffi, boriosi palloni gonfiati con l’elio, sciatti e superficiali, capaci di liquidare un paziente in 5 minuti chiedendo 200 euro di parcella, ovviamente in nero. Quanti medici ignoranti, non aggiornati, con la testa infarcita solo dei prodotti proposti loro da zelanti informatori che praticano, non ce lo nascondiamo, il “comparaggio”, quella disgustosa pratica che consiste nell’ erogare agevolazioni, crociere, soggiorni in esclusivi resort esotici, qualche volta moneta sonante, in cambio di un livello minimo di prescrizione di un determinato farmaco in luogo di altri magari più efficaci per questa o quell’altra patologia. Quanti di questi tristi personaggi ho incontrato, di qualcuno di loro ho perfino avuto compassione, di fronte alla loro pochezza e meschineria, di altri ho avuto il sacrosanto disgusto dovuto a chi usurpa la professione medica, fino a millantarla, pur possedendo un titolo conquistato magari un po’ avventurosamente. Ma con due di loro mi piace concludere il presente post. Uno è quel tristo figuro che ha ammazzato mio padre dandomi dell’”emotivo”, un personaggio divenuto nel frattempo “professore” dei miei stivali, secondo il criterio tutto italiano che i “ciucci” debbano fare carriera, e un altro medico, una dottoressa, che ho recentemente conosciuto. Una donna straordinaria, una vita spesa per la professione, una dedizione totale, assoluta.  Davanti ad un tale esempio di serietà professionale è difficile aggiungere qualcosa. Ringrazio con tutto il cuore questa persona. Non credevo che potessero esistere ancora medici come lei.  Eppure esistono, resistono, svolgono silenziosamente il loro compito, alleviano le sofferenze non solo dei pazienti, ma anche dei loro cari. Davanti a lei non posso che gettare il cappello e ringraziare il Signore di avermela fatta incontrare, un angelo con gli occhiali.