sabato 16 aprile 2011

AFFARI E SALUTE

Non c’è bisogno di incomodare le simpatiche gag di Luciana Littizzetto, per rendersi conto che, da qualche tempo, passano in TV spot pubblicitari che rappresentano una novità: argomenti mai trattati prima,  patologie che, fino a pochi mesi fa, sembravano sconosciute al pubblico femminile italiano. Mi riferisco, come avrete certamente capito, agli spot relativi ai pruriti intimi e alle perdite di orina. Ora, la domanda ovvia è: possibile che così tante donne accusino disturbi pruriginosi a livello vulvare e così tante siano almeno parzialmente incontinenti? Chiaramente no. Le cose non stanno proprio così. Come già sottolineato in un precedente post, una delle ultime strategie delle multinazionali del farmaco, è quella di creare delle “medicine per i sani”. Si direbbe, anzi, che il fine ultimo dell’industria farmaceutica, sia proprio quello di inventare nuove patologie, ovviamente non gravi, mai descritte prima o considerate del tutto trascurabili, e di lì partire per creare in laboratori un farmaco ad hoc o, più frequentemente, utilizzare un vecchio farmaco, impiegato per altre patologie, e riciclarlo per quelle nuove. Nella fattispecie, si tratta in un caso (quello del prurito intimo) di lidocaina, nell’altro caso, (quello delle perdite di orina) di un pannolino sottile come un velo, e soprattutto, trattato con un innovativo, ma che dico, rivoluzionario sistema: l’”odor control”. E’ difficile immaginare un cattivo gusto peggiore. La lidocaina è un semplice anestetico, esiste da circa un secolo, viene utilizzata a livello topico, per lo più per evitare il dolore dovuto alla introduzione di cateteri. Un prurito vaginale o vulvare NON deve essere trattato con un semplice anestetico locale, perché, se non è sporadico ma persistente, è indicativo di una patologia che va indagata, e il prodotto in questione non fa che ritardare la diagnosi. Quanto al pannolino antiperdite, il meccanismo di azione è diverso. E’ chiaro per tutti che il numero delle donne che soffrono di questo problema, soprattutto quelle appartenenti alla fascia di età delle protagoniste dello spot è assolutamente trascurabile. Qui la macchina pubblicitaria fa leva sulla “prevenzione”, cercando  di produrre, in una donna non più giovanissima, una meccanismo di ansia anticipatoria: “ e se dovessi perdere una certa quantità di orina, non mi è mai capitato, ma potrebbe succedermi, tanto vale premunisri…” Questo il ragionamento indotto dai “creativi” delle case farmaceutiche. Così un certo numero di donne, che non svilupperà mai una patologia di incontinenza, indosserà un inutilissimo pannolino che non farà altro che produrre irritazioni locali e magari…pruriti, da curare con il medicamento anestetico di cui si parlava.
Ma questi sono due esempi banali, sotto gli occhi di tutti. Diverso è il caso di altri medicamenti, principi attivi cui è stato rifatto un bel make up, e sono riciclati con un nome, una confezione e perché no, delle indicazioni del tutto nuove. E’ il caso dell’”ibuprofene”, un antinfiammatorio che ha almeno ottanta anni sulle spalle, il buon vecchio “brufen” che la nonna ci somministrava in supposte quando presentavamo dolori articolari, cefalee e consimili. Ora l’ibuprofene, con i suoi fratellini chimici “naprossene” e “diclofenac” ce li ritroviamo in tutte le salse e in tutte le confezioni. Quanti di noi non hanno usato almeno una volta il famoso “moment” (che adesso è diventato anche “act”), non sapendo di assumere semplicemente una dose di ibuprofene? Adesso il vecchio “Brufen” si può liberamente acquistare, senza obbligo di ricetta, alla dose di 400 mg. Solo che se ce lo prescrive il medico possiamo acquistare una confezione di 30 compresse con pochi euro, se lo acquistiamo noi la confezione diventa di 15 compresse e costa molto di più. E’ evidente il paradosso oltre alla speculazione commerciale da parte del produttore. Ma veniamo ad altri casi più che discutibili: si vendono liberamente, con la irrazionale indicazione di “antiacidi”, principi attivi come la ranitidina, un antisecretore, o, peggio, il lansoprazolo, un inibitore di pompa protonica. L’indicazione, dicevamo, è irrazionale, in quanto, stando allo spot pubblicitario, tali farmaci possono essere assunti “alla bisogna”, all’occorrenza, cioè in modo episodico. Niente di più sbagliato. Per il suo meccanismo di azione (la sua farmacodinamica) il lansoprazolo, per essere efficace necessita di una terapia continuativa di almeno quattro settimane. Prendere una compressa di lansoprazolo, alle dosi in libera vendita, e una volta ogni tanto, non serve a nulla, non se ne traggono benefici, si prendono solo gli effetti collaterali. Lo stesso dicasi per la ranitidina. Il farmaco adatto agli occasionali “bruciori di stomaco”, che il più delle volte altro non sono  se non degli episodi di reflusso gastro esofageo, esiste da molto tempo, e costa meno di tre euro: è il famoso “maalox”, l’unico farmaco che ha un immediato effetto antiacido, essendo composto da una combinazione di alluminio e magnesio che, a contatto con l’acido cloridrico dà origine ad una soluzione basica, neutralizzando, almeno temporaneamente, l’acidità.
Ma lo scandalo vero è un altro, e si chiama “controllo esercitato dalle Aziende Sanitarie Locali sui medici di base”. Questo processo di controllo ha preso le mosse, grazie al preziosissimo ministro Brunetta, con l’obbligo di emissione, da parte di questi professionisti, del certificato di malattia telematico. Tale certificato deve essere inviato elettronicamente all’INPS e al datore di lavoro. Secondo l’infaticabile ministro, dovrebbe servire a sveltire le pratiche delle assenze per malattia dei pubblici dipendenti e ad evitare di produrre tonnellate di carta; nella realtà, a parte il fatto che la carta viene prodotta lo stesso perchè i certificati vanno comunque stampati, accade che i flussi di dati che convergono all’INPS siano di una tale portata che i poveri server dell’istituto di Previdenza non reggono e il malcapitato paziente non riesce quasi mai ad ottenere il famoso certificato. Sarà il medico, magari a casa propria, le sera, quando il traffico è meno intenso, a produrre il certificato che invierà in copia anche all’indirizzo e-mail del lavoratore. E’ stato chiaro da subito, per tutti, soprattutto per i professionisti medici, che si tratta semplicemente di un espediente per esercitare un controllo sull’operato del medico generico, osservare quanti certificati emette, con quali diagnosi (alla faccia della privacy sulla salute) e soprattutto a chi sono indirizzarti tali certificati. Se un nominativo ricorre troppo spesso, ecco spuntare l’accusa di essere connivente con il solito pubblico dipendente fannullone, causa della crisi attuale che sta attraversando il paese. Ma questa non è la sola forma di pressione esercitata sui medici di famiglia: le ASL possono controllare, attraverso i ricettari regionali, quanti e quali farmaci vengono prescritti a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. E qui comincia il tormentone, le velate minacce, i ricatti che piovono sul medico di base. Il quale, per non incorrere in complicazioni ulteriori, cercherà di limitare  al massimo queste prescrizioni. Si arriva così al paradosso che (è capitato ad una mia personale amica) il medico si rifiuta di prescrivere la dose di antisecretore indicata ad un portatore di esofago di Barrett, mettendo seriamente a repentaglio la salute del suo paziente. Ora, è evidente che è sacrosanto cercare di far conseguire un risparmio al SSN, ma come sempre in Italia, si persegue la via più facile, la più breve, aggirando il problema senza affrontarlo. Così come, invece di mettere in atto una vera persecuzione degli evasori fiscali, almeno quelli noti a tutti,  si cerca di allungare il gettito fiscale tartassando i soliti noti, quelli tassati alla fonte, i lavoratori dipendenti; allo stesso modo, dicevamo, a pagare il conto troppo salato che deve sostenere il SSN sono i pazienti comuni, quelli che, magari, necessitano di terapie salvavita. Ma il problema vero è un altro. Le case farmaceutiche, quasi tutte multinazionali, almeno quelle che contano di più, hanno un potere vasto e incisivo. Hanno i mezzi, hanno il denaro che deriva dai loro immensi profitti, sono una pericolosa  e potente lobby. I maggiori proventi che entrano nelle casse delle ditte farmaceutiche derivano dai farmaci antineoplastici. Tutti i farmaci appartenenti a questa categoria, come è giusto, sono a carico totale del Sistema sanitario nazionale. Alcuni chemioterapici sono molto datati, hanno quindi visto scadere i loro brevetti da molti anni, e tuttavia il loro prezzo è calato solo simbolicamente. Facendo politica di cartello, questa tipologia di farmaci, alcuni dei quali aventi dei costi di produzione bassissimi, mantengono prezzi da capogiro: si arriva a migliaia di euro per una sola confezione, contenente tre fiale per soluzione endovenosa. Quanto ai tanto sbandierati “anticorpi monoclonali”, la nuova frontiera delle terapie antitumorali, si sono rivelati, nella sostanza, un flop, in quanto la loro capacità antiblastica è praticamente sovrapponibile ai vecchi chemioterapici, e gli effetti secondari sono del tutto paragonabili ai loro predecessori. Il costo di una terapia completa per un ammalato di cancro, si aggira, in media, intorno ai trentamila, quarantamila euro (considerato il solo costo dei farmaci impiegati), ma si può arrivare a cifre ben più alte, anche 80.000 euro. E’ ovvio che il SSN ne abbia a soffrire, ma finchè il nostro stato non sarà in grado di fronteggiare la lobby del farmaco e costringerla ad abbassare i prezzi dei farmaci a minor costo di produzione, continueremo ad osservare tristemente il deficit cronico del nostro sistema sanitario. Troppi interessi andrebbero toccati, troppe “relazioni pericolose” andrebbero indagate: la trasmissione “Report” ci potrebbe fare una bella puntata.
Citerò, in ultimo, un terzo problema che ci affligge in quanto potenziali fruitori o consumatori finali di farmaci. I chimici farmaceutici (un mestiere difficile, soprattutto sotto il profilo etico) con un processo alchemico discretamente banale (potrebbe farlo anche uno studente di chimica) non fa altro che modificare un anello nella catena furanica (ad esempio) ed il principio attivo ottenuto diventa “nuovo”. In realtà di nuovo c’è ben poco, il principio attivo che avrà un nome leggermente diverso dal suo predecessore avrà prevedibilmente degli effetti molto simili al precedente, ma potrà essere venduto, all’industria del marketing, come un nuovo ritrovato per quel particolare tipo di patologia. Allo stesso modo, sempre a mò di esempio, quando leggete , in un principio attivo, il pefisso “levo”,  quasi sempre si tratta dell’enantiomero levogiro della forma racemica del principio attivo sul quale si sta operando. Nel caso, per esempio, della sulpiride, uno psicofarmaco, si è sintetizzata la “levosulpiride”, venduta con indicazioni diverse (come “procinetico”), ma la farmacodinamica della sulpiride e quella della levosulpiride è praticamente la stessa. Questo, sempre a mò di esempio, spiega il proliferare di un numero impressionante di benzodiazepine, i banali ansiolitici. La composizione chimica di base è la stessa, le denominazioni commerciali ma anche dei generici sono decine e decine. L’unica cosa che le differenzia è l’emivita, la durata di azione del farmaco.
In conclusione, sui farmaci risparmiare si può, e si dovrebbe. Bisogna però affrontare  a muso duro una lobby tra le più potenti e temibili del mondo: quelle del farmaco. Non è una impresa facile, ma se non vogliamo continuare a sopportare costi completamente immotivati, e vogliamo cercare di continuare ad offrire una sanità gratuita alle patologie più gravi, tale impresa deve essere, necessariamente, portata a termine.