giovedì 21 aprile 2011

DOPO LA DURA PROVA (Un altro giro di giostra)

Da un paio di mesi, cercando di non far trapelare nulla ai gentili lettori del mo blog, ho vissuto in un’ incertezza che conoscono molto bene tutti coloro che hanno vissuto quello che segue. Questo post non è infatti come gli altri. Lo distingue dagli altri una diversa prospettiva, una diversa angolazione dalla quale osservare le cose, il mondo, la vita. Circa due mesi fa, dicevo, mi si diagnosticava, per quanto con un margine di incertezza, un carcinoma basocellulare. Non mi dilungherò in dettagli clinici che risulterebbero poco interessanti e fuori luogo. Uscito dallo studio del medico, con una mezza diagnosi e la prospettiva di ulteriori indagini, mi è mancato il cuore, come si può largamente immaginare. La mente, nell’ansia, incipiente ancor prima di essere manifesta, precorre i tempi: ti vedi nel tunnel dell’Istituto Italiano Tumori della mia città, tra coloro che sono sospesi, a praticare approfondimenti diagnostici, il cui esito, ogni volta ti farà palpitare fino alla fibrillazione. Che cosa accade ad un essere umano, quando realizza, dopo il primo momento di incredulità, che la diagnosi potrebbe essere infausta, o quanto meno fortemente a rischio? Che cosa si muove nel cuore ancor prima che nella mente, di un uomo, in queste circostanze, dove corre il suo pensiero, su cosa si sofferma? Quel giorno ero accompagnato dalla persona che mi vuole bene, ma tra mille difficoltà, dubbi ed esitazioni. La sera, a casa da solo, ho dovuto fare i conti con tutte le parti di me stesso che sono state coinvolte, quasi tutte, ma non tutte. Oltre alla ovvia paura, una paura che nasce dall’incertezza, dalla sensazione di sentirsi come sull’orlo di un abisso, di cui non si conosce la portata e la destinazione, riaffiorano a questo punto i discorsi che molte volte hai tenuto o scritto sulle ultime cose, sul termine della vita, sui “novissimi”. Ma prima ancora, ad un livello emotivo profondo, ancestrale, vorrei dire primitivo, ho avvertito la sensazione della solitudine. Una solitudine spietata, senza soluzione, senza redenzione, perché sapevo già in anticipo che cosa mi avrebbero risposto tutte le persone da me informate, tutti i miei verosimili conoscenti o colleghi, e l’assenza, la più amara, la più atroce delle assenze: quella dei cari che non ci sono più. Sapevo anche prima di allora che con me si estingue il ramo familiare, sono l’ultimo, ma, nell’occasione di riflettere sulle ultime cose, il motivo dell’assenza dei cari si configura come un abbandono, un triste, lacerante abbandono delle sole persone con le quali, in questi momenti vorresti confidarti, vorresti piangere tutte le lacrime che ti sei tenuto sempre dentro, vorresti udire quelle parole che non sono né di circostanza, né tantomeno luoghi comuni, ne hai un bisogno smisurato, e il non accoglimento di questa necessità ti lascia un dolore così profondo da divenire esso stesso una ferita, una lesione che diventa quasi fisica. In quel momento, invariabilmente, tornano alla mente i genitori perduti, anche se non sono stati dei buoni genitori, ma io sono comunque il loro figlio, il loro unico figlio, che adesso ha bisogno di loro, ha bisogno di una mamma, di una mamma che lo consoli e che gli dia quel bacio tanto sospirato, che lo culli come un bimbo e lo faccia addormentare con una carezza, come non è mai accaduto nella realtà ma come vorresti accadesse ora, nella fantasia. Hai bisogno delle parole di tuo padre, del suo abbraccio, il solo che può sciogliere quel nodo che hai in gola, il solo che ti porti conforto. Ma loro non ci sono, e io rimango solo, qui, a casa mia, e non so più cosa fare, non so più cosa pensare. Ricordo la poesia del Pascoli “Sogno”:

Per un attimo fui nel mio villaggio,
Nella mia casa. Nulla era mutato.
Stanco tornavo, come da un viaggio;
stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.

Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza ed una angoscia muta.
-Mamma?- E’ là che ti scalda un po’ di cena. –
Povera mamma! E lei, non l’ho veduta.

Poi, ad un tratto ti assale un panico feroce, ti figuri in sala operatoria, ti  immagini abbandonato in una anonima corsia ospedaliera, ancora solo, con i tuoi pensieri. O ancora nel corso delle sedute chemioterapiche, a lottare con la nausea e con il vomito, con il volto sempre più scavato, senza capelli, scarno, smagrito, l’ombra i quello che eri. Ad un certo punto cerchi, fortunatamente, di dominarti, telefoni alle poche persone che ti vogliono bene, e che ti riportano con i piedi per terra. Non c’è nulla di sicuro, e anche qualora fosse appurato ci sono ampi margini di cura e di guarigione. Ti aggrappi a questa speranza, che è comunque reale, lo fai con la ragione, perché hai fatto quello che tutti fanno in questi casi: accendi il computer e consulti su internet quello che ti riguarda, pensando di capire qualcosa di più e ottenendo come unico risultato quello di accrescere ancor più il livello di incertezza e l’entità del dubbio. Quella notte devi assumere qualcosa per indurre un sonno pesante e senza sogni che altrimenti non verrebbe mai, e l’indomani ti presenti al lavoro tentando di comunicare qualcosa di quello che ti si agita dentro. I colleghi, quelli più stretti, cercano, come si conviene di minimizzare, poi faranno i commenti del caso per conto loro, ma è giocoforza, entrare nella girandola delle frasi fatte e delle blande tranquillizzazioni che ottengono l’effetto opposto. Non riesci a concentrarti su quello che fai, e un senso sottile di angoscia si impadronisce di te, per non abbandonarti più. Attraversi le stanze del posto di lavoro come un fantasma, ti senti impalpabile, come fatto di un’altra sostanza, continui a fare quello che ti viene richiesto meccanicamente, senza partecipare realmente a quello che accade. E poi, piano piano, comincia a farsi strada un’altra  sensazione, nuova, mai provata prima. Si stabilisce tra me e gli altri un diaframma, una parete dapprima sottile, poi più solida, che ti separa dal mondo dei sani. Non provi quella che si chiama comunemente invidia per tutti quelli che non hanno nulla di particolare, o non sanno ancora di avere dentro di sé il seme della morte, l’uovo del serpente. No, non è invidia, è qualcosa di più e di meno. Svanisci, ti senti più etereo, quasi avessi perduto parte della visibilità, ti senti comunque “diverso”. Questa sensazione di diversità ti separa irrimediabilmente dal mondo dei sani. E allora provi questo ulteriore imbarazzo, hai quasi paura che qualcuno possa scoprire il segreto che è in te, quello che si sta preparando nella tua fisicità, quello che si anima dentro di te. Diventi sfuggente, eviti gli altri, cercando di sorridere come prima, ma è un sorriso forzato. Nessuno si accorge di nulla, sei stato bravo. Questa differenza, che ci separa dal mondo dei cosiddetti “sani” (che poi sani non sono) è molto ben descritta nel memorabile racconto “sette piani” di Dino Buzzati, un autore in cui il tema della morte e del morire è dominante. Bene, questa volta l’ho provato io, dopo averlo letto. Poi, di nuovo a casa, perché non hai voglia di fare altre cose, come se non esistesse altro che la malattia o la possibile malattia. E’ questo un grossolano errore, nel quale si cade in genere nel corso dei primi giorni di fronte ad una diagnosi dubbia. L’errore consiste proprio nel trascurare tutte le altre cose per concentrarsi solo su se stessi, come ascoltandosi, come sorvegliando ogni singolo movimento del tuo corpo, quasi fosse rivelatore di quello che i macchinari non sempre sono in grado di svelare. Poi, la sera, a casa, ripensi a tutte le tue letture, a quello che hai sempre sostenuto in questi casi, cerchi di scoprire se quanto hai assimilato in tanti anni possa rivelarsi di una qualche utilità. Riaffiorano gli studi di teologia, di filosofia, vediamo se posso trarre qualche giovamento. Sfogli distrattamente qualche libro, anche quelli che ti sono stati più cari e ti sembravano utili allora, quando non eri coinvolto in prima persona. Per poi scoprire che non è servito, studiare tanto, cercando di persuadere gli altri della bontà delle tue argomentazioni, non ti è servito a nulla. Tutto si azzera, si ricomincia da capo, fai i conti più che con la trascendenza, che si è sempre nutrita di dubbi e di speranza, con l’immanenza di questo essere qui, adesso, in queste condizioni. I primi giorni trascorrono così, nel tentativo di fare le cose che ho sempre fatto, ma come svuotate di significato, quasi fossero vane, fatue, senza un obiettivo ben preciso. E allora mi soffermo proprio su questo: che cosa ho fatto finora, un lavoro che non mi ha dato una soddisfazione, ripetitivo, monotono, cui mi sono adattato per oltre vent’anni, ma che faccio tuttora e sempre più con fatica, alla ricerca di una gratificazione impossibile. Sopraggiungono allora i rimpianti per non aver lasciato prima, per non aver abbandonato prima, per dedicarsi, per il tempo che mi resta, alle cose che amo di più, che mi sanno dare un qualche piacere. E’ il passaggio dei facili rimpianti, delle scelte che potevi fare e non hai fato, perché nessuno di noi ha la morte datata, i giorni contati, se lo sapessimo in partenza scenderemmo in strada per gettarci sotto la prima auto che passa. E così dopo una settimana o due trascorse con un costante sottofondo di angoscia, lentamente, senza neppure renderti conto di quello che ti accade, cambia qualcosa. Qualcosa si è spostato. Emerge la mia parte infantile, quella che mi fa sentire il bisogno di avere accanto una persona cara, un genitore, proprio quella di cui ormai solo io devo prendermi cura. Ebbene, ora è il momento. E’ un po’ come avere la responsabilità di questo bimbo che custodisco dentro di me, e non posso abbandonare anch’io, lasciare solo come altri hanno fatto. E poi, anche in seguito a questo, cominciano a fare capolino le risorse che non credevi mai di possedere, tanto erano occultate da quintali di sciocchezze ripetute ogni giorno, dai rapporti inautentici, dall’ipocrisia che contraddistingue la maggioranza dei rapporti umani, il pensato non detto, l’essere intrappolati in una gabbia di orari e di mansioni. Sono quelle risorse di forza, di reazione, che pur galleggiando in un oceano di  dolore e di angoscia, ti consentono di sperare che tutto vada bene, che questa cosa si possa risolvere, e che ti resti ancora una parte di cammino da percorrere. E’ l’ora delle scelte, quelle che si possono fare, in queste circostanze puoi a ragione pensare di abbandonare un lavoro che non ti appaga, è l’ora delle promesse, delle piccole cose che ti riprometti fare se riuscirai a superare questa dura prova. Così, nell’attesa del prossimo verdetto, dopo il passaggio attraverso tutta la stadiazione che contraddistingue queste occasioni, l’incredulità, la rabbia, lo scendere a patti, il ricorso alla religione e quello alla provvidenza, arrivi in quella terra di nessuno, quel limbo delle attese senza fine, delle anticamere anche metaforiche. Ma proprio questa attesa forzata ti consente di dischiudere dentro di te un mondo nuovo, non necessariamente positivo, che non ti aspettavi, qualcosa di realmente diverso e inusitato. Ricordo uno splendido film di Agnes Varda, “Cléo dalle 5 alle 7” . Cléo è una cantante che ha condotto la sua vita senza porsi troppi problemi, viziata e vezzeggiata da quelli che la circondano. Le 2 ore del titolo sono quelle che precedono la consegna dei risultati delle analisi che le riveleranno se è affetta o no dal cancro. Al di là della prodezza tecnica (l'equivalenza tra il tempo del film e il tempo dell'azione), quest'ammirevole dramma intimista indaga sulla trasformazione della psicologia di una donna che esce dall'egoismo e dalla frivolezza per aprirsi alla vita, interessandosi agli altri. Io non sono ancora pervenuto a questo risultato, ma quello che si sta aprendo nel mio inconscio, soprattutto in certi momenti, è qualcosa da indagare. Adesso, quando socchiudo gli occhi, anche di giorno, per cercare nel sono un po’ di quiete, non mi addormento, ma vedo cose che non vedevo prima, fantastico di mondi che non conoscevo. Tornano alla mia mente le fantastiche visioni contenute nel capitolo “Neve” della “Montagna incantata” di Thomas Mann. Ora vedo fiumi tumultuosi che sfociano in mari verdi come lo smeraldo, fiumi tortuosi, trapassati da sfavillanti raggi di sole, e poi cascate blu cobalto, con i vapori che si levano lenti verso un cielo lontano, arcobaleni dorati trafitti dal sole che irrompe tra le nuvole bianche, dense di lanugine. Poi mi trovo in una casa, sopra la scogliera, a capofitto sul mare, distinguo a malapena la luce che appare e scompare di una faro che intravedo tra la nebbia, gli scalini che scendo, verso la baia più sotto, li conto e li riconto, consumati e tetri, immersi nella caligine. Una volta arrivato sulla spiaggia, a ridosso della grotta, sento il profumo dell’ibisco e del gelsomino, mi siedo al riparo dalle onde, non sento freddo, il vento mi accarezza e gioca con le mie fantasie. Poi sono di nuovo in volo, verso terre lontane, mai viste né sognate, percorro gli arabeschi dei viaggi senza meta né ritorno, sotto di me foreste di abeti azzurri, radure gialle di stoppie, savane indorate dal sole, colline sterminate, disseminate d’ambra e d’oleandri, laghi profondi che specchiano cavalli lanciati in un galoppo fremente e forsennato, tra spruzzi d’acqua e tronchi rugginosi. Questo ed altro vedo quando mi trovo disteso sul letto, trasognato, tra luce ed ombra, senza mai scivolare nel vero sonno. La sera, dopo un pasto frugale, cerco di leggere per distrarmi, e invece scrivo qualcosa, che poi magari  butto, non soddisfandomi punto. Quando mi ritrovo sotto le coperte non vedo più i mondi del giorno, ma il sonno mi piomba addosso come una cappa nera, come un tremulo velo che mi difende come può dalle ombre del giorno. E poi di giorno mi torno a svegliare, appena apro gli occhi l’angoscia ritorna, mi assale furiosa, mi ghermisce come un rapace. Ripenso a “Canzone per Piero” di Guccini:
Io dico sempre non voglio capire, ma è come un vizio sottile e più penso
più mi ritrovo questo vuoto immenso e per rimedio soltanto il dormire.
E poi ogni giorno mi torno a svegliare e resto incredulo, non vorrei alzarmi,
ma vivo ancora e son lì ad aspettarmi le mie domande, il mio niente, il mio male..

I giorni passano, lenti e fumanti come i comignoli di un paesaggio invernale, mi sento come sospeso, vivo e non vivo gli intervalli tra un esame e l’altro, tra una visita e l’altra, contando il tempo con i risultati. E poi, un giorno, il 20 aprile, il referto che ho tanto atteso, la non malignità, la riapertura della speranza, la ripresa del cammino dopo la dura prova. Eppure, nonostante tutto, pur nella gratitudine al Padre celeste, non trovo il pieno sollievo che credevo, la totale consolazione che speravo. E non mi spiego il perché. Un fondo di tristezza vela ancora il mio sguardo, che avrebbe dovuto riaprirsi lucido e sereno al mondo, ma qualcosa rimane di quei giorni, qualcosa non è volato via, è rimasto qui con me. Che sia la consapevolezza della mia fragilità, della mia provvisorietà (oggi è andata così, e domani?). O forse qualcosa di bello è accaduto comunque, anche nei giorni dell’angosciosa incertezza. Non i sogni ad occhi aperti, non le facili suggestioni, miraggi della mente o dello spirito, forse la coscienza che anch’io, come tutti noi, un giorno, quando capiterà davvero, potrò affrontare questa dura prova e forse riuscirò a superarla, qualunque sia il suo esito. Adesso è tempo di scelte, delle scelte irrevocabili, non so quanto mi resta, un mese o molti anni, so che è arrivato il momento di fare qualcosa solo per me stesso, e per il bimbo che è in me e ha ancora bisogno di me. Il cielo , dunque, come diceva Terzani, mi ha concesso ancora un giro di giostra. Potrebbe essere l’ultimo, o forse no. Ma, nella salutare incertezza, non devo perdere tempo in conflitti sterili e inconcludenti. C’è ancora qualcosa che devo fare, c’è ancora qualcosa che devo dire. Signore, concedimi un altro giro, c’è qualcosa che devo ancora concludere.