lunedì 30 agosto 2010

DISOCCUPATE LE STRADE DAI SOGNI

Sempre più spesso, sui blog, sui giornali, in TV, anche su CDC, si levano critiche più o meno aggressive (per lo più assai superficiali e a volte grossolane) contro i cosiddetti “profeti di sventura”, le Cassandre che predicono o prefigurano scenari negativi se non catastrofici per l’Occidente in generale, e segnatamente per l’Italia. Sostengono, queste anime belle imbevute della sottocultura massmediale, che tali personaggi sono dei disfattisti masochisti e flagellanti, vedono il bicchiere mezzo vuoto invece che mezzo pieno. Il problema è che il bicchiere non è mezzo pieno: è solo vuoto, anzi, a guardar bene non c’ è neppure il bicchiere, inteso come contenitore. Questi figli dei media, berlusconiani involontari o immaginari, senza capire alcunché di economia o di finanza, sostengono che gli analisti come Eugenio Benetazzo sono degli speculatori frustrati, dei razzisti nazifascisti, ammalati del vizio tutto italiano dell’autodenigrazione. Quelli in buona fede non comprendono perché poco informati o vittime di pregiudizi, quelli in cattiva fede sono sul libro paga di qualche lobby, di qualche casta, di qualche cricca o di qualche consorteria come la P3. Coloro che non hanno gli occhi foderati di mortadella cominciano a vedere, man mano che la nebbia va dissolvendosi, le cose nella loro più cruda ed amara realtà. Riassumiamo ancora una volta.
Si parla da due anni di crisi economica. Non c’è nessuna crisi, perché le crisi, anche quella del 1929, hanno un inizio ed una fine. Questa no. Se l’inizio si può convenzionalmente stabilire con il fallimento della Lehman Brothers, l’uscita dal tunnel non ci sarà più. Semplicemente perché non di crisi si tratta, ma di una svolta storica, epocale, la fine, con una lunghissima coda, di un’era, di un sistema, quello capitalistico, al termine del quale è difficile intravvedere quello che seguirà. Ogni singolo posto di lavoro perduto costituisce una perdita irrimediabile, irrevocabile, perché non sarà più recuperato. Alla crisi finanziaria, provocata dalle distorsioni del mercato lasciato a se stesso, dall’ignavia o, peggio, dall’incompetenza di Bush in primo luogo, e dal velleitarismo criminale di Greenspan, si è innestata quella economica, dovuta, in larga parte dalla crisi di liquidità delle banche, divenute troppo prudenti ad elargire credito alle imprese (e le imprese senza credito non sopravvivono), ma anche dal volgare, ripugnante opportunismo di molti imprenditori italiani, che, approfittando in modo strumentale della crisi, hanno delocalizzato le loro azienda nei paradisi retributivi, dove la gente lavora per un una manciata di lenticchie. Non pareva neppure vero, a questi signori, di cui nessuno parla, di cogliere al volo l’occasione di piangere miseria in patria (“non posso più andare avanti, sono costretto a chiudere…”) per riaprire le loro imprese nell’est europeo o in Asia. Tra una decina d’anni l’Italia non sarà più un paese industrializzato: le alternative esistono solo in teoria, ma, di fatto, sono impraticabili. Un paese deindustrializzato, deve rivolgersi al terziario, dal quale può derivare qualche provento, può affinare ed approfondire quei pochi settori fortemente specialistici dove il made in Italy ha ancora un certo seguito nel mondo. Ma, non potendo contare su di una “ruralizzazione” (non ci riuscì neppure Mussolini), deve necessariamente fare leva sui patrimoni storico-artistico e paesaggistico. Ma sappiamo bene come viene conservato e mantenuto tale patrimonio: pessimamente. Pompei ed Ercolano sono pronte alla chiusura, non ci sono risorse per la manutenzione degli scavi, o se ci sono, sono state divorate dalla Camorra, i Musei, i parchi, le aree protette, con qualche felice eccezione, sono gestite da persone senza entusiasmo e senza idee, attente solo a conservare il posto o le prebende acquisite. Non parliamo delle strutture di accoglienza, che, lungi dall’elaborare una linea comune, badano solo al loro piccolo interesse particolare, mantenendo prezzi altissimi e servizi mediocri, tali da far scappare anche il turista più ben disposto. L’attuale governo, formato da nani, ballerine ed un sultano, è talmente ridicolo da non comprendere di cadere costantemente nella comicità involontaria. I personaggi, siano essi politici, giornalisti, economisti ecc. che parlano di “ripresa debole o incerta” mentono spudoratamente. Non è che la ripresa sia debole o fragile, il fatto è che la ripresa non esiste. Sappiamo come si possa giocare con i numeri, ce lo ha insegnato un maestro del settore, Silvio Berlusconi, Non è in atto una crisi vera e propria, dunque non può neppure esserci ripresa. Può sussistere solamente stagnazione o recessione, almeno per un decennio, poi si vedrà. La prova che nella crisi ci siamo fino al collo è che basta che una agenzia di rating faccia una affermazione piuttosto che un’altra, e i mercati bruciano milioni d euro. Si leggono le veline di Moody’s o di Standard & Poor’s ponendo attenzione addirittura alla punteggiatura: una virgola in più o in meno può condizionare non dico l’andamento di un titolo piuttosto che di un altro, ma addirittura le sorti di un paese intero. Tutta l’Europa, l’est e il sud più l’Irlanda, con l’eccezione della Germania, del Regno Unito, dell’Olanda e della Scandinavia, sono, nei prossimi anni, a rischio default. L’iniezione di liquidità voluta dal quel vecchio trombone visionario di Trichet, serve solo a stabilizzare temporaneamente la situazione. L’inchiodare i tassi di sconto all’1% (misura che dovrebbe essere eccezionale e limitata alla fase acuta della crisi) da qui all’eternità è una delle più palesi dimostrazioni che i signori della BCE sanno perfettamente che non ci sarà mai una “exit strategy”. Presto si faranno sentire i deleteri effetti di un costo del denaro al minimo possibile. Ma, oltre alle bolle immobiliari e dei mutui subprime, deve ancora esplodere, e questo sarà il colpo di grazia, quella dei prodotti strutturati detti derivati. Hanno intossicato praticamente tutti i mercati e tutti i maggiori gruppi bancari: con prospettive di profitti assolutamente fuori da ogni realtà di mercato, i nostri enti locali hanno le casse avvelenate da questi prodotti spazzatura, scatole vuote che rimandano ad un debitore futuro, ancora di là da venire, che costituisce una speranza di incasso, ma che in realtà consiste solo in “sofferenze” in senso economico, vale a dire in “incagli” che devono essere portati in perdita. Il bello, dunque, deve ancora arrivare. Stiamo solo cuocendo a fuoco lento. Quando quest’ultima bolla esploderà, un paese come l’Italia non solo scivolerà nella bancarotta, ma entrerà a pieno titolo nel “secondo mondo” che si andrà a costituire. Siamo abituati a pensare ai paesi del “terzo mondo” per indicare i paesi (una volta si diceva in via di sviluppo) irrimediabilmente condannati alla povertà. Il secondo mondo sarà quello che annovererà l’Italia tra i suoi soci fondatori, più gli altri già menzionati, e andrà a connotare quelle nazioni una volta prospere, ed ora, per l’inettitudine e la corruzione della propria classe politica, si trovano in piena decadenza. Si aggiungano a tutto ciò altri due fattori decisivi per l’affondamento di questo paese. La criminalità organizzata che governa metà del territorio italiano e ne controlla parte del resto, ben lungi dall’essere sconfitta da qualche operazione di polizia, è talmente infiltrata nei gangli del potere, dal confondersi completamente con il ceto politico ed economico italiano. Il paese è bloccato, congelato, dal potere mafioso, che perseguendo, come è ovvio, il proprio tornaconto, non bada certo all’interesse nazionale. Il potere della criminalità organizzata, ancora più incisivo nei periodi di crisi, è qualcosa di assolutamente inestirpabile, tanto è connaturato nel nostro sistema-paese. Si pensi poi al problema degli immigrati. Anche in questo caso Eugenio Benetazzo è stato etichettato come “razzista” per il solo fatto di fotografare la realtà così come è. Con buona pace della retorica di certa sinistra che non ha ancora compreso che continuando con la demagogia sulle gioie della “società multietnica” continuerà a perdere consensi e a perdere una elezione dopo l’altra, il tutto a favore della Lega Nord. Vediamo più attentamente il perché. In una società multietnica è presente un soggetto ospitante ed uno ospitato. L’ospitante ha una propria identità nazionale, una propria storia, una cultura, una giurisdizione, una religione e via discorrendo. Il soggetto immigrato, fatti salvi i diritti fondamentali dell’uomo, il rispetto per la persona ecc. se veramente è intenzionato a costruire una società che sia il risultato della fusione di diverse culture, religioni ecc., la società multietnica insomma, deve anzitutto essere rispettoso della società e del sistema che lo ospita e, in un secondo tempo, farsi portatore, direi promotore del proprio patrimonio culturale. Vediamo che cosa accade in Italia a questo proposito. Non solo la stragrande maggioranza degli immigrati non sono affatto interessati a rispettare i parametri culturali di chi li accoglie, ma il fatto è che non ci pensano neppure a farsi portatori del proprio patrimonio di idee e di cultura. Una volta costituitisi in comunità, si spalleggiano l’un l’altro, proseguendo imperterriti a mantenere le proprie “tradizioni” anche se a volte non proprio culturali e morali. Si ghettizzano o, viceversa, invadono interi quartieri delle nostre città, comportandosi come se ne fossero i colonizzatori e l’unica cosa che noi italiani sappiamo opporre a questa forma di tracotanza, è quella di ritirarci in buon ordine nelle nostre casette, o, nella migliore delle ipotesi, ad abbandonare il quartiere, lasciandolo completamente in mano agli immigrati. Chiunque avesse un minimo di buon senso avrebbe compreso anni fa che i flussi immigratori non regolamentati avrebbero condotto il paese non alla società multietnica vagheggiata dai benpensanti (che però non abitano nei quartieri più disagiati), ma alla Babele delle idee e della cultura. Quando ci si fonde in una società multietnica, ciascuno dei soggetti in questione porta qualcosa in “dote”: noi abbiamo una storia millenaria (anche se non sempre cristallina), un’arte, una cultura filosofica, scientifica e politica di straordinaria ricchezza. Che cosa portano in dote le popolazioni immigrate? Prendiamo il caso che riguarda, per esempio, Genova. La città è invasa dagli ecuadoriani, brava gente, non particolarmente propensi al crimine, d’accordo, ma che non possiede nessun tipo di cultura e di storia. Sebbene siano trascorsi molti anni dalla dominazione spagnola, non sono stati in grado di autodeterminarsi, (sono dominati, in patria, da una élite bianca) di fondare un’arte ed una letteratura, non hanno nessuna personalità di spicco, in nessun campo dello scibile. La loro unica ricchezza, quella che ci hanno portato in dote, sono le bocche da sfamare. Sono dei formidabili procreatori, la sterilità è sconosciuta in quella parte del mondo. E poi chiedono, chiedono. E, mi pare giusto, vengono loro concessi, anche in questi tempi grami, sanità ed istruzione gratuite; presentano dichiarazioni ISEE validate dall’INPS (!) pari a zero. Ma allora di che vivono? Può essere considerato un arricchimento l’unione di queste due identità nazionali? Sono gente allegra, che ama cantare e ballare, ma vivere in condominio con loro può diventare un inferno. E non venitemi a raccontare la solita favola dell’immigrato che svolge le attività che gli italiano non vogliono più sobbarcarsi. Balle. Quando uno di noi perde il lavoro e nella pentola che mette sul fuoco non sa più che mettere, state pur certi che le italiane saranno dispostissime a fare le badanti e gli italiani non avranno difficoltà a raccogliere pomodori nelle Puglie. Un paese che perde la propria identità culturale è un paese che perde anche la stima in se stesso, e che è condannato alla decadenza. Mi si dirà, come sempre, che anche noi eravamo un popolo di emigranti. Sono due realtà assolutamente imparagonabili. L’emigrazione in America o in Australia era rigidamente contingentata, per quanto riguarda quella in Europa, in Germania, Belgio o Svizzera vi rimando al film di Franco Brusati “Pane e cioccolata”, dice tutto. Altro che sanità ed istruzione gratuite. A quel tempo non c’erano la Caritas ed una rete sociale che proteggeva l’emigrante: ti dovevi arrangiare e uniformare, altrimenti te ne tornavi a casa. Ecco perché la società multietnica non apporta nessun tipo di ricchezza, ci impoverisce economicamente e culturalmente. Ricordiamo che anche gli anglo-sassoni sono stati il prodotto di una fusione di due distinte etnie: in quel caso, però, l’operazione ha avuto un risultato tutt’affatto diverso, la popolazione inglese non è riuscita, tutto sommato, male. Siamo ossessionati dalla paura di essere considerati “razzisti”, abbiamo timore delle parole perché ci sforziamo di utilizzare il linguaggio americano ripulito, politicamente corretto, che è fatto solo di ipocrisia e di apparenze. Qualcuno, per non utilizzare la parola “straniero” definita discriminante, ha proposto l’alternativa di “non italofono”. Ecco cosa siamo capaci di fare. Quando nel tuo quartiere, quello dove sei nato e dove sei cresciuto, ti imbatti, camminando per strada, in volti e atteggiamenti completamente diversi da quelli cui sei abituato, si instaura una sindrome che si potrebbe definire di “spaesamento etnico”, umanissimo e pienamente comprensibile. Ma questo non è razzismo, non dimentichino mai, coloro che pronunciano come un disco rotto questa parola, che il razzismo propriamente detto è quello del regime nazista, teorizzato da Chamberlain e Rosenberg e assorbito, con qualche modifica, da Hitler. Il popolo italiano, nel suo complesso, è totalmente estraneo al razzismo.
Detto questo, che cosa ci attende, diciamo tra un decennio? Difficile fare una previsione, Benetazzo nel suo ultimo articolo, auspica provocatoriamente un nuovo Lorenzo il Magnifico. Fuor di metafora, credo che le possibilità che si prospettano siano due. Considerato che nulla possiamo attenderci dai nostri giovani, allevati nel benessere da bestiame bovino, deformati da una scuola incapace di precorrere i tempi, viziati e vezzeggiati, privi della carica innovativa che dovrebbero essere parte costitutiva della loro essenza, temo che sia legittimo aspettarsi, come ho già scritto altrove, una sorta di “medioevo” culturale politico ed economico, dove tenebre, caos e miseria domineranno incontrastate. Poi, senza rivoluzioni (che non sarebbero verosimilmente attuabili da una popolazione smidollata abituata all’indolenza) potrebbe farsi strada con un golpe bianco, magari senza colpo ferire, un “uomo della provvidenza” sul tipo di taluni dittatori sudamericani. Lo scenario potrebbe ricordare da vicino gli ultimi anni della repubblica di Weimar: la grande depressione conseguente al 1929, l’inflazione completamente fuori controllo, la massiccia disoccupazione, i drastici tagli alla spesa sociale, le conseguenze del trattato di Versailles motivarono l’ascesa del nazismo. Non penso certo ad una figura paragonabile a quella funesta di un Hitler, ma ad una repubblica presidenziale che si configuri come una dittatura morbida o una democrazia autoritaria, sul modello degli stati africani. Sì, perché l’Italia, mi si conceda la battuta, diventerà il “paese più settentrionale dell’Africa” (V. Gassman in “Profumo di donna”). Una seconda possibilità potrebbe essere costituita dal raggiungimento degli scopi della Lega nord, con la conseguente secessione di una parte della penisola, e la parcellizzazione del resto d’Italia. E’ solo una ipotesi accademica, ma non è una idea così peregrina.
Chiarisco in ultimo di non fare il “profeta di sventura” per puro spirito masochistico: sono coinvolto in prima persona in questa congiuntura: non sono ricco, non faccio lo speculatore, il mio intero patrimonio è investito in titoli che una volta si sarebbero detti “sicuri” e sul cui rimborso, alla scadenza, nutro parecchi dubbi. Credo semplicemente che non sia possibile essere ottimisti ad ogni costo quando, come si diceva all’inizio, il bicchiere non è mezzo pieno o mezzo vuoto: è solo vuoto.

Agosto 2010 Roberto Tacchino

*Il titolo dell’articolo è tratto da un memorabile disco di Claudio Lolli, un cantautore completamente rimosso dal nostro panorama musicale, al pari di Ivan Graziani, Stefano Rosso e Pierangelo Bertoli. In compenso si è fatto di Rino Gaetano un mito consumistico: esattamente il contrario di quello che avrebbe voluto in vita. L’Italia è un triste paese che non ha memoria, e quindi non ha futuro.