lunedì 30 agosto 2010

IL MEDIOEVO ALLE PORTE

Che cosa ci riserva il futuro, che cosa ci attende? E’ la domanda che ognuno di noi, economista o no, si pone ormai da un paio d’anni. Economisti ed analisti non sono concordi, segno che formulare previsioni, in questa fase, è estremamente azzardato, tanto che i pareri che si leggono sui giornali o si ascoltano in TV sono qualche volta opposti. Anzitutto occorre mettersi d’accordo sul termine “crisi”. Non si tratta affatto di una crisi, ma di un “tornante della storia” come correttamente l’ha definita il ministro Tremonti. Che cosa cambia? Il fatto che non c’è nessuna uscita da questa crisi. Se l’inizio è stato convenzionalmente stabilito con il fallimento della “Lehman and Brothers” e dei mutui subprime americani (era grosso modo il luglio 2008), non è possibile alcuna fine della crisi, alcuna uscita dal tunnel. In parole povere, trattandosi di una svolta della storia politico economica del mondo, non c’è una fine, una via di uscita che ci riporti alla situazione del 2007. Ci sarà solo un “prima” e un “dopo” 2008, l’anno che segna, tra l’altro il fallimento del sogno capitalistico. Sulla crisi finanziaria si è innestata infatti una crisi economica, dovuta a quelle distorsioni che il libero mercato lasciato a se stesso avrebbe prodotto sino alla sua implosione, proprio come predetto da Marx. Non è qui il caso di analizzare le cause vicine e remote dell’attuale congiuntura mondiale: sono molteplici e difficili da scandagliare; è certo che, in ogni caso, prescindendo da un pugno di giovanotti che hanno giocato con la “finanza creativa” inondando i mercati di prodotti tossici come i “derivati”, coloro che avrebbero dovuto vigilare ed intervenire tempestivamente – in primo luogo lo sciagurato presidente USA Bush e il governatore della FED Greenspan - possono essere individuati come i principali responsabili della bolla dei mutui subprime americani che ha dato l’avvio alla crisi. Una sola cosa è certa: nessuno dei responsabili, anche considerando che tale responsabilità è frazionata in un composito mosaico, pagherà mai il prezzo della crisi, anzi, troveranno, questi stessi signori, il modo migliore per arricchirsi con la speculazione. Non ci dilungheremo oltre, dunque, su quanto è avvenuto prima, ma cerchiamo di capire cosa potrebbe accadere nel medio e lungo termine. A questo proposito ritengo utilissima l’analisi prodotta da un analista acuto come Armando Carcaterrra, di cui riporto fedelmente di seguito una recente intervista:

IL DILEMMA DEI GOVERNI TRA DEBITO E DEFLAZIONE

Passata la fase acuta della crisi, adesso gli occhi sono puntati sui governi nazionali i quali devono correggere i debiti pubblici. Armando Carcaterra spiega come stanno procedendo in questa strada i Paesi europei e quali sono i possibili rischi.

D1 - Perché i mercati, nonostante la forte volontà dei governi di stabilizzare i debiti pubblici, continuano a mostrarsi incerti?
Passata la fase acuta della crisi finanziaria, che i governi hanno affrontato con interventi di salvataggio del sistema bancario e politiche monetarie e fiscali fortemente espansive, i mercati si aspettano che le forze politiche si pongano il problema di correggere i debiti pubblici, ma che lo facciano in modo sostenibile.

D2 - Cosa significa stabilizzare i debiti in modo sostenibile?
Dopo la crisi greca e le defatiganti trattative tra i governi europei per evitarne il default, è sembrato che la ricetta per ristabilire stabilità fosse per tutti paesi la correzione dei disavanzi pubblici. Tutti i paesi europei, Germania compresa, hanno ormai avviato o annunciato manovre fiscali restrittive di rilevante entità, quasi sempre centrate su pesanti tagli di spesa pubblica. La riduzione dei disavanzi pubblici è sicuramente un ingrediente necessario per rendere credibili le prospettive di stabilizzazione del debito, ma non è certo un elemento sufficiente.

Occorrono infatti due condizioni:
a) un surplus primario che, in percentuale del PIL, compensi la spesa per interessi
b) una crescita del PIL nominale sufficiente a mantenere l'aumento delle entrate fiscali in linea con quello della spesa pubblica.

I governi europei stanno perseguendo con determinazione la prima strada, ma sembrano trascurare la seconda. In prospettiva quello che conta è infatti la traiettoria del rapporto percentuale Debito/PIL: se il debito scende, ma nel contempo il PIL scende di più, il rapporto aumenta, anziché diminuire, e le prospettive di stabilizzazione del debito peggiorano.

D3 - Quali sono i pericoli maggiori di questa situazione?
La maggior parte dei 50 eminenti economisti intervenuti nelle scorse settimane in un forum online dell'Economist considera la deflazione il rischio principale a cui è esposto oggi il mondo occidentale. Deflazione significa una situazione in cui i prezzi dei beni e servizi scendono. In un mondo molto indebitato, una discesa dei prezzi aumenta il peso reale dei debiti. Inoltre, se si generalizzano aspettative di riduzione futura dei prezzi, i consumatori tendono a differire i consumi e le imprese a rinviare gli investimenti, perché si aspettano che in futuro beni di consumo e beni di investimento costino meno. La deflazione tende quindi ad autoalimentarsi perché genera spinte alla contrazione della domanda di beni e servizi. Oggi, nel mondo occidentale, la disoccupazione è già a livelli elevati e l'inflazione molto bassa. La politica monetaria ha già portato i tassi di interesse a livelli minimi e quindi non ha margini per intervenire ulteriormente a sostenere la crescita. In questo contesto, gli sforzi dei governi dovrebbero essere orientati a creare condizioni infrastrutturali per una crescita di lungo periodo sostenibile, e cioè:

- investimenti pubblici nell’istruzione, in ricerca ed in tecnologia che aumentino la capacità di innovazione
- maggiore flessibilità del mercato del lavoro e, contemporaneamente, sistemi di protezione sociale che consentano una più alta mobilità dei lavoratori
- investimenti in infrastrutture (trasporti, strade, reti informatiche ecc.) che facilitino l'attività economica.

Se, accanto al necessario rigore fiscale attualmente messo in atto, si accompagnassero anche programmi mirati a redistribuire e concentrare le risorse disponibili sui fattori che possono favorire e promuovere la crescita nel medio periodo, gran parte dello scetticismo che ancora domina i mercati finanziari lascerebbe probabilmente spazio ad una visione più ottimistica del futuro.(Fonte:www.soldionline.it)

Detto questo, cerchiamo di immaginare lo scenario più probabile, sia in senso politico che economico che ci attende. L’Italia, (è sotto gli occhi di tutti e la vicenda della Fiat di Pomigliano d’Arco ce lo insegna), cesserà di essere in paese industrializzato. Non possiamo in nessun modo, per cultura, per ignavia, per conservatorismo sindacale, per il vittimismo che da sempre ci contraddistingue, affrontare la sfida della globalizzazione. L’accordo di Pomigliano, se ci sarà,  avrà il fiato corto. Alla prima difficoltà gli operai scenderanno in sciopero o saliranno sui tetti (cose non previste dall’accordo di Marchionne) e in un modo o nell’altro la Fiat sbarcherà in qualche altra nazione (magari la Slovacchia che ci ha eliminato ai mondiali di calcio). Dall’Italia del futuro prossimo non solo non uscirà più una sola auto dalla catena di montaggio: semplicemente non si produrrà più un solo bullone. Svanisce una intera classe sociale, quella operaia. Non ci saranno più tute blu, scompariranno i metalmeccanici. In nome della globalizzazione e del capitalismo avanzato neoliberista, la produzione va dove costa meno e ottiene risultati migliori in termini di prestazione finale. In sostanza, gli operai dell’ex terzo mondo non solo presentano un conto meno salato per quanto attiene il costo del lavoro, ma sono anche più bravi e specializzati dei nostri ultimi esangui, metalmeccanici, non più formati né aggiornati perché l’aggiornamento, la specializzazione e anche la sicurezza costano troppo, e le imprese italiane non possono sopportare tali costi. Ecco perché si parlava all’inizio di svolta epocale, non di semplice crisi: in Italia non sarà più presente l’industria pesante. O meglio, la solo industria che potrà sopravvivere sarà quella manifatturiera del made in Italy molto settorializzato e richiesto all’estero, una produzione di nicchia dunque, destinata a pochi eletti. L’industria pesante, quella medio – grande è già finita. Ma allora che cosa potremo esportare? Come già detto, qualche prodotto griffato Italia, come alcuni vini, l’abbigliamento delle sfilate, la pelletteria di èlite, la gastronomia per palati fini. Tutto qui. Non possiamo riconvertire il nostro paese nel settore agricolo, non abbiamo a disposizione il territorio dell’Ucraina, e la nostra agricoltura non copre neanche lontanamente il fabbisogno interno. La cultura? Certo, possediamo più del 50% del patrimonio storico artistico del mondo, ma non abbiamo mai fatto niente per valorizzarlo. In larghe parti del territorio non ci sono infrastrutture finalizzate ad attirare i flussi turistici. Buona parte del nostro patrimonio è semplicemente lasciato andare in malora, per incuria, ignoranza, pressapochismo, miopia dei nostri amministratori, una classe parassitaria e corrotta. Per un paese che in futuro potrà contare solo sul turismo attirato dalle bellezze artistiche e paesaggistiche, non stiamo facendo nulla per prepararci al futuro. La manovra finanziaria di questo governo imbelle e senza idee, contempla solo tagli, sorda alla lezione keinesiana che una politica di tagli alla spesa pubblica non può che impoverire il paese se è dissociata da una politica di investimenti pubblici. Che nel nostro caso, dovrebbero riguardare la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio artistico. Terminiamo prima la Salerno – Raggio Calabria, poi pensiamo al ponte sullo stretto di Messina. Non pensiamo sempre e solo a tartassare i soliti noti: con una pressione fiscale che è già pari al 43%, questo governo da operetta sta pensando, per tacitare il malumore degli enti locali che si vedono tagliare le risorse, di introdurre un nuovo soggetto impositivo. Si chiamerà IMU (Imposta Unica Municipale) dove dovrebbero confluire le imposte già dovute come quella sui rifiuti, in modo da reintrodurre surrettiziamente l’ICI sulla prima abitazione. Con una classe politica come la nostra non si può andar lontano. Ma gli investimenti pubblici, che si traducono in buona sostanza in appaltare grandi opere, in un paese come il nostro, per buona parte in mano alla criminalità organizzata, finirebbero  per rimpinguare le casse della Mafia, della Camorra e della ‘Ndrangheta. Siamo un paese da rifare (o rifondare) dalle sue fondamenta. Per questi motivi, ed altro ancora, non saremo in grado di affrontare la sfida della globalizzazione e della inevitabile riconversione della nostra economia. Ce ne staremo lì, come tanti allocchi, ad aspettare che la crisi provochi la bancarotta dello Stato e dei principali gruppi bancari italiani. Ci sono ancora in giro troppi prodotti intossicati dai derivati, scatole cinesi che non si sa bene cosa contengano. Quando scoppierà la bolla dei derivati allora anche il tanto decantato sistema bancario italiano, solido, fatto di piccolo, gretto e micragnoso risparmio, andrà in default, grazie alle politiche dei facili arricchimenti dei manager bancari e dei boiardi di stato. In questo scenario non certo confortante, si stagliano all’orizzonte i primi fallimenti, le prime bancarotte degli stati sovrani. Emblematico il caso della Grecia, che con la moneta unica ha scialato e dissipato come una cicala, ha ingrossato a dismisura (per crearsi clientele) la pubblica amministrazione, pletorica e farraginosa, ha dilapidato gli aiuti comunitari all’agricoltura, al welfare ecc., ha lasciato le banche e il mercato a se stessi senza esercitare alcun controllo, per ritrovarsi infine insolvente dinanzi i propri creditori, per la maggior parte risparmiatori che hanno prestato i loro danari attraverso i titoli di stato. La Grecia è la nazione dove si poteva andare in pensione a 53 anni. Ora, e difficile spiegare come gli altri partners europei abbiamo lasciato incancrenire una situazione così vistosamente autolesionista: una prima spiegazione potrebbe essere dovuta al fatto che alla moneta unica non ha fatto seguito alcuna forma di unione politica (qui non si riesce neppure ad approvare una Carta Costituzionale europea, figuriamoci costruire gli Stati Uniti d’Europa!), e questo è il peccato originale dell’eurozona; una seconda spiegazione potrebbe essere che la Germania, sotto il cui tallone di ferro l’Europa intera è ormai costretta, nasconda un suo interesse nel fallimento della Grecia, terra dove i tedeschi hanno molto investito. Sia come sia, nonostante il patetico salvataggio a colpi di milioni di euro (ma non basterebbero i miliardi di euro a risanare un bilancio statale), la Grecia è tranquillamente avviata al crollo finale, una situazione in cui alla bancarotta dello stato seguono i crack di tutti gli istituti di credito, non c’è più mercato, non c’è più borsa, non più scambi, uno scenario apocalittico da guerra per bande. A stretto giro di valzer seguiranno la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda e, finalmente, l’Italia. Altri paesi fuori dalla moneta unica, come l’Ungheria, sono già al tracollo. I mercati sono attualmente così “volatili” semplicemente perché sanno benissimo che la politica degli aiuti disgiunti da una svolta economica e finanziaria locale non hanno, nel medio e lungo termine alcun effetto, se non quello di far indebitare maggiormente i paesi che ne beneficiano. In Grecia, per mettere le mani avanti, e perché si sono svegliati come dopo un lungo sonno o una lunga sbornia, hanno ricominciato a stampare le dracme. Perché proprio di questo si tratta. Sia i paesi in odore di fallimento (tutti quelli mediterranei) che la Germania, regina incontrastata, talmente decisiva da condizionare completamente la BCE che ne è, di fatto, divenuta una appendice neppure troppo nascosta, hanno un certo interesse a sfilarsi dall’Euro, per diverse ragioni. I paesi in default perché non si trovano nella possibilità di stare nella gabbia sempre più stretta dei parametri europei, che rischia di diventare una soffocante camicia di forza, la Germania, unico paese la cui economia ha relativamente risentito della crisi, unico paese esportatore tra tutti quelli europei, per il semplice fatto che, al pari del Regno Unito, non vedrebbe di mal’occhio un ritorno alla moneta nazionale, il marco, che, più o meno come la sterlina, potrebbe cavarsela da solo senza portarsi appresso la zavorra degli stati indebitati. Nel 2012, vero annus horribilis della crisi, l’Euro cesserà di esistere. Dopo dieci anni di (neppure troppo) onorato servizio, il vecchio Euro andrà in pensione perché, per opposte ragioni, non servirà più a nessuno: alla Germania che lo vedrebbe come un inutile impaccio, per gli stati più deboli perché li ingesserebbe in regole troppo ferree da seguire. Anche la nostra Italia, a quel punto, tra un paio d’anni, due anni di inutile, lenta agonia tra qualche alto e molti bassi, vittima di una politica di soli tagli e zero sviluppo, potrebbe paradossalmente beneficiare di una uscita dall’Euro. A questo punto l’Unione Europea mostrerebbe la corda: gli stati membri sarebbero finalmente liberi di fare quello che in fondo, in modo sottile e sotterraneo stanno già facendo: andare ognuno per i fatti propri, insofferenti delle regole comuni. Ogni stato sarebbe libero di scegliersi, magari facendo la cosa giusta, la propria “exit strategy”, ogni stato potrebbe scegliere, sulla base per esempio del dato inflattivo, se alzare o abbassare il tassi di sconto, senza passare sotto le forche caudine della BCE che lo ha inchiodato all’1%. A quel punto, dopo due anni inutilmente e improduttivamente trascorsi, l’Italia, dopo una acuta sofferenza di un altro paio d’anni, potrebbe trovare la propria via di uscita dalla congiuntura. Ma dal momento che sono destinati a trascorrere parecchi anni prima di una prima, timida uscita dal tunnel, che cosa potrebbe avvenire, sotto l’aspetto politico-sociale? Una svolta epocale di questa portata non può essere esente da stravolgimenti sociali, politici, conflitti anche violenti, una mutazione del tessuto urbano, dei rapporti di forza tra le parti sociali, ecc. L’Italia, insomma, potrebbe fare ingresso in quello che potremmo definire un nuovo “medioevo”, nel senso letterale della parola, di “età di mezzo”, dopo la quale però, è difficile immaginare un nuovo rinascimento. Il fallimento del capitalismo è sotto gli occhi di tutti, l’analisi di Marx si è rivelata, alla distanza, sostanzialmente corretta; il capitalismo, i liberismi, come tutte le vicende umane hanno un ciclo vitale nel quale esaurirsi, ed il capitalismo sta per concludere il proprio ciclo. Nessun sistema sociale dura eternamente o anche solo indefinitamente: ora è la volta del capitalismo. Nel medioevo verso il quale ci accostiamo, non ci saranno comuni, signorie o principati, non ci sono signori dei castelli con vassalli e valvassori, ma è pur vero che, piuttosto che andare verso l’unione, stiamo navigando, a vista, verso la frantumazione degli stati. In Italia la Lega otterrà finalmente il federalismo, che si tradurrà solamente in una moltiplicazione dei centri di spesa e in un pericoloso frazionamento delle regioni, l’una contro l’altra armate. Il Belgio è già di fatto una nazione spaccata in due, fiamminghi e Valloni. La Spagna accelererà il processo di divisione di stati baschi e catalani, e via discorrendo. Negli anni immediatamente precedenti l’abolizione dell’Euro, e in quelli immediatamente successivi, possiamo immaginare uno scenario costituito da un Medioevo cencioso, sul tipo di quello messo magistralmente in scena da Robert Altman nel film “Quintet”. Una spaventosa recessione, che impoverirà il paese sino a renderlo ingovernabile. Un larghissimo strato di poveri (quelli veri) una volta scomparso il ceto medio, appiattito in basso, verso la povertà, cingerà d’assedio le poche enclaves ancora abitate da pochi ricchi, che dovranno circolare scortati da un pugno di mercenari. Recessione significa che le banche, quelle sopravissute, non sono più in grado di concedere fidi o di prestare denari a chicchessia, e la fine del credito è anche la fine dell’economia, perché le imprese senza credito possono solo fallire. La cessazione della liquidità per le banche significa che  i bond emessi sia dallo stato fallito che dagli stessi istituti di credito non potranno essere onorati alla scadenza, e il povero risparmiatore invece di vedersi restituito il capitale si troverà in mano solo un pacco di carte bollate.  Chi si vorrà adeguare alle leggi della globalizzazione potrà vendere le proprie braccia (vi ricordate la definizione di “lavoro interinale”= lavoro in affitto?) per un salario da fame, senza contratto e senza garanzie, come nei paesi emergenti dell’Asia. Chi non vorrà o potrà adeguarsi a questo stato di cose, andrà lentamente naufragando in un mare di debiti, e finiti gli ultimi spiccioli, andrà ad ingrossare le fila dei senza tetto, degli sbandati e dei disadattati. I governi potranno succedersi di segno anche opposto, ma non potranno fare altro che stare a guardare, abbozzando misure tanto eclatanti quanto inutili, un po’ come fanno in questo momento storico. Tutto questo fino alla rottura sociale, alla guerra per bande, alla nascita di movimenti di lotta armata spontanea che non si orienterà neppure verso un avversario preciso (venendo a mancare il supporto ideologico marxista), trasformando le piazze in una specie di guerra di tutti contro tutti. Rinasceranno i movimenti anarco insurrezionalisti, al momento sopiti, ma pronti a risorgere al momento appropriato. Fino alla guerriglia urbana, gli spari in città, fino al coprifuoco. L’esercito che interviene, una giunta militare provvisoria, che poi diventa definitiva, un governo civile, garantito e ostaggio delle forze armate. In queste circostanze non vengono mai meno gli uomini della provvidenza. Un populista alla Chavez per il Venezuela potrebbe prendere le redini del governo con l’ausilio della polizia e dell’esercito, ristabilire l’ordine sociale ed instaurare, dopo elezioni fasulle, una democrazia autoritaria, o una dittatura blanda. Ci vorranno decenni per tornare ad uno stato della democrazia partecipata come la conoscevamo prima della crisi. Le dittature non hanno mai vita breve, nonostante le promesse di ripristino delle garanzie costituzionali, e di un veloce ritorno alle libertà civili. Le dittature durano decenni, e trovare un traghettatore che riporti indietro l’orologio del tempo non sarà una cosa né breve né facile. Questa, è vero, è la peggiore delle ipotesi, ma tutto sommato, a giudicare dall’andamento dei mercati (non dimentichiamo che un’altra distorsione storica di questo capitalismo e che l’economia prevale e condiziona la politica, laddove dovrebbe accadere il contrario) non c’è da sperare in qualcosa di meglio. La gestione dei passaggi storici è sempre difficilissima, occorrono governi abitati da uomini che posseggano un alto senso dello Stato ed uno spirito di abnegazione, un disprezzo per il potere. Uomini che, allo stato attuale, nel nostro paese, non si trovano nel modo più assoluto. E allora, niente di più facile che scivolare nella recessione fino alla povertà continuando a suonarsela e a cantarsela come l’orchestrina del Titanic al momento dell’affondamento. Quando la nave si reclinerà su di un lato, sarà troppo tardi per intervenire. E allora, avanti, coraggio, affrettiamoci al Medioevo prossimo venturo.

Luglio 2010, Roberto Tacchino