sabato 20 agosto 2011

IL DELTA AL TRAMONTO

La sera, quando il denso crepuscolo polveroso si stendeva sui canali e sui fangosi bacini prosciugati dal delta, mi sedevo sulla comoda sdraio di vimini sotto il telone della tenda, per osservare lo spettacolo del tramonto. Nell’opaca luce turchina, il crepuscolo illuminava come un faro pallido le spiagge umide, i canali profondi che si intrecciavano in disegni misteriosi, come in un labirinto di idee prima ancora che di fango, come un enigma che sapesse di eterno. In quell’ora la febbre diminuiva, ed ero in grado di guardare con maggiore lucidità lo spettacolo che mi si offriva. Dalla sdraio di vimini cercavo di indovinare il senso  di quell’intreccio, ed ogni volta, a metà percorso, ero costretto a ricominciare da capo, perdendo il bandolo della matassa. C’era qualcosa di soprannaturale nel dedalo di quei canali impolverati, ma non riuscivo, ogni volta che mi ci provavo, ad andare al di là della sensazione di osservare un nido di serpenti che si muovevano lenti e sinuosi gli uni verso gli altri, disegnando percorsi sempre interrotti. Non distinguevo bene il paesaggio del delta, ma il tramonto era l’unico periodo di tregua che mi concedevano le febbri, e nonostante facessi il possibile per aguzzare lo sguardo, il senso di mistero permaneva, sempre uguale. Guardavo l’ultima luce ritirarsi dai tortuosi viottoli di sabbia del delta e man mano che il caldo aumentava, con l’avanzare dell’estate, la luce indugiava sempre più a lungo, distendendosi lieve sulle spiagge sbiadite,  colorando di porpora i ciottoli aguzzi, inondando d’argento il buio dei canali. Poi il sole scompariva, e un tetro grigiore si adagiava sul delta, illuminato, per un breve intervallo, dalla luce di un faro lontano.

Non ricordavo da quanto tempo mi trovavo là, accanto al delta, da quanto le febbri malariche mi costringevano a periodi sempre più rari di lucidità: durante il giorno tutto si confondeva come in una nebbia, e non riuscivo a distinguere che poche figure evanescenti. In tutto quel tempo, che è ancora il mio tempo e che non appartiene più alla dimensione del ricordo, non facevo che passare da un sogno all’altro, da una fantasia all’altra, mentre i grandi mandala mi guidavano all’ingiù, inserendomi nei loro luminosi quadranti. In questa condizione, l’unica cosa reale era la spiaggia del delta, immersa in una completa assenza di tempo, dove, finalmente, potevo sentire la sincronia di tutti gli istanti, la coesistenza di tutti gli eventi che credevo passati. Alle mie spalle, un paesaggio desolato luccicava nelle ore torride del mezzogiorno, come una montagna morente i cui torbidi sentieri dessero un segno della loro luminosa presenza su di me e dentro di me, che, assorto e quasi trasognato, non potevo che chiudere gli occhi a quello spettacolo. Poi, verso sera, potevo distinguere i pendii di fango indurito e brillante come asfalto rovente, e soltanto un sottile rivolo di acqua nerastra scorreva lentamente tra i solchi. L’intero paesaggio sembrava perfettamente immobile, ed una strana inquietudine scendeva a farmi battere il cuore e pulsare le tempie.

Là, nella luce della sera, quando i miei sensi riprendevano la loro forma consueta, l’intero orizzonte sembrava aprirsi e dilatarsi all’infinito, nella pace dorata dell’imbrunire. Avevo la sensazione di  sprofondare sempre di più nel paesaggio del delta, nelle sue spiagge di madreperla, di trasfigurarmi fino a confondermi con l’intreccio dei canali bluastri ormai preda delle tenebre. Ciononostante, ero tranquillo, adagiato sulla sdraio di vimini, sotto la luna piena che saliva sulle spiagge addormentate. Sentivo il fruscio lieve del vento, smorzato dalla sabbia ancora calda e dall’aria scura, spessa come il talco. Come obbedendo ad un tacito richiamo, una notte mi alzai e mi diressi a fatica, affondando nella sabbia soffice, circondato dall’oscurità che si addensava intorno a me, verso i canali e verso il fango, cercando di guadagnare le spiagge argentate al colmo del chiarore lunare. Arrivai a fatica sui canali, scivolando sul fango indurito e venato come la creta, e dopo un tempo che mi parve infinito, arrivai sulla spiaggia. Mi voltai per un ultima volta: non c’era nessuno ad attendermi come a salutarmi. Con un ultimo sforzo, indebolito dalla febbre e dalla malinconia, raggiunsi l’acqua, che mi accolse tiepida e placida come una tenera madre. Dopo un ultimo sguardo al delta che mi circondava, scivolai nel mare che mi cinse il capo e mi chiuse gli occhi. E la luna, la notte e l’eternità dominarono su tutto.