sabato 29 gennaio 2011

METZENGERSTEIN

Ora che finalmente scende il crepuscolo ed io, ospite in una casa sulle alture della città, posso osservare, da dietro una finestra, l’ultimo bagliore del sole che tra poco scomparirà dietro l’orizzonte marino, mi ritrovo a pensare a quello che oggi è accaduto. Ho il cuore pesante e gli occhi gonfi di malinconia. Non è stata una buona giornata, anzi, uno dei punti più bassi toccati dopo il giro della  boa dei cinquant’anni. Una triste, dura giornata, fatta di delusioni, disillusioni, inganni e disinganni. Alla mia età non dovrei più cadere facile preda delle chimere, delle morgane, che qualcuno volontariamente o no, fa baluginare davanti al mio volto. Eppure, nonostante gli anni mi abbiano reso avezzo al pessimismo della realtà, una parte di me ancora spera che il mondo non sia quello che trasmettono i miei occhi, che rimandano i miei impietosi sguardi, ma ci sia ancora spazio per un bene vero, reale e tangibile. E invece, dopo un pomeriggio di picche, e di scacchi, sono qui, dietro alla finestra, aspettando che faccia buio, ed il mio ospite mi congedi in fretta. Sulla via del ritorno, mi capita di pensare alla frase che chiude il racconto di James Joyce “Arabia” dai “Dubliners” – “Alzando allora gli occhi su, nel cielo, mi vidi come una creatura trascinata e derisa dalla vanità. E gli occhi mi bruciarono d’angoscia e di rabbia”. E’, parola per parola, quello che provo in questo momento. Gli uomini ti deludono, ti lusingano fino a che hanno bisogno di te, mascherando dietro la sottile cortina delle buone maniere, i loro veri scopi. Si servono di te, cercando di blandirti, di stuzzicare quel poco o tanto di vanità che alberga in ognuno di noi, per poi defilarsi elegantemente, al momento in cui ti presenti, col cappello in mano, per raccogliere quello che hai, magari con fatica, seminato. Ma il cappello rimane vuoto, devi fare strada al passeggero successivo. Così, dopo avere tanto letto, studiato, e scritto, non solo sulle poche ed umili pagine di questo blog, credi di aver capito qualcosa della natura umana, forse persino di quella divina, e invece, niente, ogni volta si ricomincia, perché ogni volta è poi sempre lo stesso. Mi guardo intorno, sono nella mia città, percorro le strade che dovrei conoscere a memoria, cerco di vedere nei miei simili quello che da tempo non vedo neppure più in me stesso. Cerco di prendere tempo, di non tornare subito a casa, come a cercare qualcosa che mi dia consolazione. Ma non sono più triste, una volta sì, mi capitava, mi rinchiudevo nella mia casa come dentro ad un guscio, ascoltando qualche canzone tetra che fosse in sintonia con il mio cuore, magari solo tre accordi di una infinita malinconia. Ma adesso non è più così, adesso sono più forte della malasorte, degli amici fasulli che ti cercano quando hanno bisogno di qualcosa, degli incantatori di serpenti che provano giocare anche con la tua buona fede. Ci provino pure. Sono impotente solo davanti alla malattia, del resto me ne infischio. Potete deludermi, giocare con la mia sciocca vanità, cercare di lusingarmi o di minacciarmi, il mio spirito è calmo, è dolce il mio approdo. Da qualche tempo ho imparato l’unica forma possibile di tutela della sopravvivenza: prendermi cura di me stesso. Anche se sono solo, anche nelle avversità, ci sarà sempre una parte di me che si occuperà di non farmi soffrire troppo, e di cullarmi come un bambino. Se queste cose non le puoi avere al di fuori di te, le devi cercare dentro di te. E allora passa anche questa giornata. E poi, da qualche parte, c’è ancora una persona che mi vuole bene, c’è ancora un grembo dove poggiare il capo. Ormai è l’imbrunire, manca poco alla strada di casa. Entrerò dentro casa, chiuderò la porta alle mie spalle, e farò qualcosa che mi porterà una piccola gioia, anche se molto piccola. Cucinerò qualcosa che mi piace, indosserò un pigiama di bucato, mi sdraierò sul letto con un libro che devo terminare. La giornata terminerà a notte fonda, davanti ad un computer, parlando di me stesso, di questo momento. Domani sarò di nuovo sereno, e tutto sarà passato. Ma dentro di me, nel più profondo recesso della mia coscienza, si anniderà per sempre un pensiero indicibile, un fuoco inestinguibile. Un altro mattone è stato posato nella costruzione della mia nuova esistenza. Non mi fa più male, ma può far male. Al momento giusto, inaspettatamente, inopinatamente, salterà fuori dalla mia mente e dalle mie membra il cavallo del barone di Metzergenstein, un destriero bellissimo, dal pelo fulvo e dalle fattezze non paragonabili a nessun altro cavallo, lanciato in una folle corsa verso il palazzo in fiamme dei Berlifitzing, dei traditori, dei superbi, dei seminatori di discordia, dei consiglieri fraudolenti, lo cavalcherà il mio spirito in guerra, pronuncerà parole che solo allora si potranno comprendere, e riderà , riderà di un riso che farà gelare il sangue nelle vene, prima di scomparire per sempre tra le fiamme del palazzo di pietra e cristallo.


POSTFAZIONE
Trattandosi di un post ad indirizzo intimistico è doverosa qualche nota di precisazione. La giornata descritta (il 28 gennaio) ha offerto all’autore, per il suo negativo andamento, qualche spunto di riflessione, spunto nel quale chiunque di noi, prima o poi, può ritrovarsi ed immedesimarsi, a seconda degli eventi che coinvolgono ciascuno di noi. Il titolo “Metzergenstein” è ispirato ad un racconto minore, ma non per questo meno affascinante, di E. A. Poe. Le persone e le circostanze descritte nel presente post non hanno, ovviamente, alcun riscontro con la realtà.