venerdì 7 gennaio 2011

HA SENSO LA VITA? (Quelli che restano)

U. Boccioni: "Quelli che restano"

Mai come in questo periodo appare difficile, se non impossibile, affrontare il discorso sull’essenza della vita, sul suo significato ultimo, sul valore delle ultime cose e degli ultimi istanti. Il cataclisma economico e finanziario (e quindi anche politico) che si è abbattuto sul mondo intero, su di un mondo, ahimè globalizzato, (ricordo sempre i Soloni che fino a pochi anni fa tessevano le lodi della globalizzazione), non contribuisce di sicuro a rendere le cose più semplici. I risvolti, i riverberi della crisi mondiale, crisi che è appena iniziata e ci accompagnerà per i prossimi decenni, ha segnato profondamente le nostre coscienze, i nostri psichismi, i nostri rapporti con gli altri e col mondo, in una parola le nostre coscienze. Un velo di tristezza è calato sulla nostra “visione del mondo”, i miti del progresso, della crescita, dell’evoluzione positiva del globo, le “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità devono adesso fare i conti con un sistema profondamente corrotto, malato, quello del capitalismo che ha generato il liberismo e la deregolamentazione dei mercati, consentendo le anomalie e le distorsioni cui assistiamo tutti i giorni. Ha ragione Tremonti quando asserisce che la speculazione, essendo sistemica alle banche, ha solo tratto giovamento dagli aiuti, dalle iniezioni di liquidità di cui hanno goduto i gruppi bancari in crisi, acquistando nuovo vigore e capacità di condizionamento dell’intera economia mondiale, che si trova così in balia degli intrighi e del tornaconto di una lobby finanziaria solo attenta al proprio profitto, e per questo ancora più odiosa. Sia come sia, l’incertezza domina sovrana le nostre esistenze: impossibile formulare previsioni a livello economico e finanziario, impossibile prevedere quello che si verificherà nel nostro mondo politico, nel nostro stesso futuro personale (basti pensare alle pensioni, sempre più lontane e sempre più inconsistenti – il TFR, lo sappiamo, ce lo siamo già giocato), nel futuro dei nostri giovani, predestinati ad un avvenire di precarietà, se non di indigenza, impossibile comprendere quello che un licenziato quarantenne o cinquantenne potrà fare negli anni a venire. Tutto questo, sommato ad una stampa e soprattutto ad una televisione che ritrae un paese inesistente, partorito dalla fantasia di autori assoggettati alla politica, un paese dove l’orchestrina se la suona e se la canta mentre la nave affonda. Il nostro più grande artista dell’età moderna, Umberto Boccioni, esprime magnificamente e compiutamente questi temi nel suo ciclo più famoso, quello degli “Stati d’animo” nelle composizioni degli “Addii” , “Quelli che vanno” e “Quelli che restano”. Ma è proprio per questi motivi, perché mai come adesso è difficile affrontare i discorsi sui ”massimi sistemi”, ebbene proprio ora è importante imprimere nelle nostre esistenze un colpo di coda, un guizzo di vita, l’”elan vital” di Matisse, il moto di orgoglio del navigante prossimo al naufragio. Non è mai stata una impresa facile attribuire un significato ad una esistenza – quella umana – intrisa di dolore e sofferenza. La morte oncologica, la morte ospedaliera, la morte violenta, la morte anonima, il volto truce della tenebra che ci aspetta, l’incertezza del domani, di un mondo che verrà, l’enigma della tomba. Siamo “esseri per la morte” come diceva Heidegger, abbiamo racchiuso in noi il germe dell’immortalità, abbiamo l’anelito alla vita eterna, e questa ci viene tolta , troppo spesso, in modo brutale, atroce. Come è difficile spiegare, secondo il cristianesimo, ad una madre il cui figlio è stato strappato alla vita in tenera età da un oscuro male, come è difficile motivare una vita spezzata. E poi, prescindendo dalla morte, ovunque guardiamo, intorno a noi e dentro di noi, vediamo sempre più spesso egoismo, cinismo, superficialità, volgarità, disinteresse per gli altri, corruzione morale e spirituale, violenza e aggressività. E’ difficile, dicevamo, per un cristiano accettare tutto questo, un ateo potrebbe risponderci che la nostra vita, la nostra esistenza, la vita della natura e del mondo non sono che il prodotto del caos, del gioco ironico del caso, che non esiste nessun aldilà semplicemente perché noi stessi siamo il frutto di una evoluzione non preordinata, siamo animali semplicemente più intelligenti degli altri e solo per questo fatto riteniamo di possedere un’anima spirituale, quando in realtà seguiamo la stessa sorte del resto della natura, ci dissolviamo dopo la morte ed entriamo nel ciclo dell’azoto. Polvere siamo e polvere ritorneremo. La nostra vita non sarebbe che una pausa del vuoto che la precede e del vuoto che la segue. Ma non ci possiamo accontentare di queste spiegazioni. Possiamo rispettarle, difficilmente condividerle. Non vale neppure, intendiamoci, il discorso altrettanto facile, dell’ottimista superficiale e retorico che invoca i tramonti sul mare, i cieli stellati, il sorriso di un bimbo, la carezza di una madre e amenità di questo genere. Troppo pesante è il fardello di tutta la malvagità che circonda, sotto ogni suo aspetto, troppo preponderanti sono le forze del male. E allora occorre approfondire il discorso con qualche riflessione in più, con qualche idea, non nuova, non si pretende certo, in questa sede, di esaurire il discorso, ma, insomma, proviamo a vederci un po’ più chiaro. Partendo da un presupposto cristiano, quindi religioso, le cose si complicano non poco. Atteso che la fede non deve mai essere contraria ala ragione, se non in pochissimi eccezionali casi di un paio di dogmi, è piuttosto difficile credere ad una creazione sia della materia che dell’uomo. La scienza, segnatamente la fisica, hanno ampiamente dimostrato l’origine dell’universo (“big bang”) e della vita (“il brodo primordiale”), dovuti entrambi, probabilmente, non proprio ad un intervento soprannaturale. L’evoluzione ha fatto il resto. Però, ad un certo punto della storia dell’universo e del mondo, si affaccia una creatura che possiede qualcosa in più. In più in relazione alle altre creature, e non solo in termini di intelligenza. Possiede quella che chiameremo “consapevolezza della propria finitudine”. E’ questa consapevolezza che ci distingue da qualsiasi altro organismo vivente conosciuto, e ci permette di pensare alla religione come a qualcosa di possibile, e alla esistenza di un’anima spirituale come ad una eventualità non peregrina. Possiamo pensare a degli esseri alieni molto più evoluti di noi, tecnologicamente molto più avanzati, capaci di costruire società avveniristiche per noi inimmaginabili, addirittura in grado di viaggiare nel tempo, superando quella che per noi resta una barriera invalicabile, la velocità della luce. Ma l’essere umano, così come lo conosciamo, ha questa prerogativa, unica, bellissima, imprescindibile: la coscienza del proprio esistere, dei propri limiti, del suo essere nulla al cospetto della natura, della sua fragilità, del suo cieco egoismo, e, allo stesso tempo, e proprio in virtù di questa consapevolezza, la percezione dell’anelito verso qualcosa di più elevato, di più alto e puro, di incontaminato dalla corruzione della nostra natura, qualcosa di perfetto dal quale, forse, deriviamo, siamo usciti, siamo emanazione. Ecco lo spirito religioso, che, anche antropologicamente, appare innato nell’uomo, connaturato in lui. Ha attraversato la storia di tutti i popoli e di tutti gli uomini, la necessità di credere in quel “quid” di soprannaturale che non solo ci aiuta a sopportare le sofferenze di una vita difficile, ma genera in noi la speranza in una vita futura, diversa da quella terrena, una vita perfetta, lieta e gioconda. Se è vero che l’uomo possiede questa anima spirituale, una sorta di scintilla divina in noi, allora questa inclinazione, questa propensione verso qualcosa di più assoluto e vero che auspichiamo ci attenda al termine delle nostre misere esistenze può assumere i contorni della verità. Ho sempre impresse nella memoria le parole di Matteo 6,33 “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia”. Ecco, in queste poche parole è racchiuso il messaggio della speranza cristiana. Che non vuol dire abbandonarsi semplicemente alla provvidenza in modo inattivo o improduttivo, ma cercare, appunto, la “giustizia di Dio”. Questo è il tema centrale. La giustizia di Dio esiste, ed esiste perché quella degli uomini non ne è che un pallido riflesso, quasi sempre disatteso. Ognuno di noi ha intuitivamente il discernimento del bene e del male, di ciò che è crudele e negativo e di quello che è giusto e positivo. Eppure, “gli uomini preferirono le tenebre”. Insensibili al messaggio della nostra stessa coscienza, ci lasciamo travolgere dalle miserie del mondo, dimentichiamo la cura degli altri, diventiamo malvagi ed egoisti solo per “accumulare ricchezze in questo mondo”. Ma la giustizia di Dio, prima o poi, prevarrà, verrà il momento per tutti noi di trovarci sull’orlo dell’abisso, ci troveremo dinanzi a colui che tale giustizia ha generato. E allora, perché non pensare che tutto ciò che da questa parte della vita è imperfetto ed incompiuto non possa trovare in un altra vita la propria compiutezza e perfezione? La sete di giustizia che volenti o no, alberga nelle nostre coscienze sarà finalmente placata. “Il giusto per fede vivrà”, ma non in questo mondo dove la meritorietà delle opere è un concetto estremamente relativo, ma in un altro, dove il nostro spirito potrà trovare pace, ristoro, potrà finalmente riposare, dopo la fatica di vivere, potrà abbandonarsi tra le braccia di Colui che ci ha generato in esseri spirituali, tornare al Padre che ci ha dato la vera vita, e che adesso, stanchi delle tristezze e delle tribolazioni del mondo, ci accoglie con l’unico amore veramente possibile, quello di un tenero Padre che sa perdonare e comprendere al di là delle apparenze, accogliere noi, che avevamo perduto la speranza, che ci eravamo dimenticati che cosa volesse dire essere degli “esseri umani”, noi che ci siamo sbranati come cani, che abbiamo fatto dell’odio e dell’intolleranza gli scopi della nostra vita. Spesso ci sentiamo ripetere che il senso della vita sono i valori che le nostra effimere esistenze sono in grado di produrre: l’amicizia, l’amore per uno o una dei nostri simili, la famiglia, i nostri figli, lo spettacolo della natura. Ma l’amicizia è spesso fallace e interessata, l’amore per un nostro simile ha un inizio ed una fine e pretende sempre qualcosa in cambio, i legami parentali sono spesso improntati all’egoismo e all’avidità, i figli molte volte tradiscono le nostre aspettative e si mostrano ingrati e superficiali; quanto alla natura è regolata da leggi ferree spesso crudeli. Non sono questi i valori fondanti una esistenza. Se il nostro orizzonte si ferma al termine della nostra vita terrena, allora tutto quello che abbiamo radunato in una vita intera, emozioni, amori, sentimenti, intelligenza, ardore, intuizione, genialità, tutto questo patrimonio che non è solo ideale, è qualche cosa che è realmente appartenuto a noi, al nostro essere, lo abbiamo sperimentato più e più volte, lo abbiamo toccato, vissuto fino in fondo, allora tutto questo andrebbe irrimediabilmente perduto, seguirebbe le sorti del disfacimento del nostro corpo. Ma i sentimenti non appartengono al corpo, così come il nostro spirito non appartiene a noi, che non lo meritiamo, ma appartiene a Dio, che ce ne fa dono gratuitamente, senza avere nulla in cambio, come avviene nel vero, puro amore. E’ la nostra stessa infelicità di creatura indifesa, fragile e peccatrice, che ci rivela questo dono meraviglioso. La nostra consapevolezza di essere nulla al cospetto di Dio, genera quell’”infelicità” che è solo umana, che non si deve confondere con la depressione, che è di competenza psichiatrica, è una categoria che appartiene alla filosofia, alla teologia. Questa stessa infelicità ci parla del nostro Padre, della sua assenza, della nostalgia che abbiamo di Lui e del suo amore, ebbene, questa infelicità è già di per sé un segno della Grazia, un segno di redenzione e di elezione, uno dei motivi per credere in una vita nell’aldilà e della nostra appartenenza a qualcosa che ci sovrasta. Non mi sembra che tutto ciò sia contrario alla ragione, sia più inverosimile della posizione atea, che è senz’altro più semplice ed immediata, ma, nel complesso, nel profondo, più irrazionale. Alla domanda: “ha senso la vita?” Si può probabilmente rispondere che  può averlo solo a condizione che si ammetta non tanto e non solo l’esistenza di Dio, ma l’esistenza di quella parte spirituale che alligna nella nostra anima, e che un giorno ritroverà la via del ritorno alle sue origini, alla “casa del Padre”, un Padre colmo di amore e di benevolenza che ci accoglierà come un figlio smarrito, che ci farà comprendere come tutto quello che abbiamo visto qui, sulla terra, tutte le miserie e le meschinità che abbiamo sopportato, sono solo il riflesso distorto di quella che è la vera vita che verrà. Se ciascuno di noi, dall’ateo più agguerrito, al mistico più zelante, non avesse questa manifesta o segreta speranza, allora non varrebbe più la pena di continuare questa stucchevole commedia, questa vita da comparse in una farsa dell’assurdo, tanto varrebbe gettarsi da una rupe, porre fine alle nostre miserabili esistenze.
Concludo così il secondo capitolo della trilogia degli "Stati d'animo" ispirata al pittore Umberto Boccioni. Il primo, qualche post fa, intitolato "Cartolina ad una sconosciuta" era dedicato agli "Addii". Seguirà s breve un post dedicato a "Quelli che vanno".