lunedì 10 gennaio 2011

UNA STORIA DISONESTA (quelli che vanno)

U. Boccioni: "Quelli che vanno"
Dovendo concludere la breve trilogia dedicata al ciclo di Umberto Boccioni degli “Stati d’animo”, pubblico il presente post avente per argomento “Quelli che vanno” pensando a  tre cantautori che hanno accompagnato diversi anni della mia giovinezza, e sono, come si dice in questi casi, prematuramente scomparsi, e nessuno si occupa più di loro, anche coloro che hanno contratto un debito più o meno ingente con questi tre artisti. Si fa un gran parlare, viceversa, di un personaggio, anch’esso stroncato nel fiore degli anni, come Rino Gaetano, caricando la sua figura ed il suo messaggio di valenze e di concetti che lui stesso avrebbe rigettato, allergico com’era alle facili etichette. Quindi, anche se è vero che la sua evoluzione prometteva bene, la sua immagine, dall’utilizzo consumistico che se ne sta facendo, è visibilmente distorta. Il silenzio, invece, è completamente calato su tre cantautori  che meriterebbero di essere più spesso ricordati e approfonditi. Mi riferisco a Pierangelo Bertoli, Ivan Graziani e Stefano Rosso. Il primo, che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente nel corso dei suoi esordi, si è distinto per la schiettezza, l’autenticità, l’immediatezza della sua ispirazione. Figlio di una modesta famiglia modenese operaia, impara a suonare la chitarra da autodidatta, e compone le prime canzoni quasi per scherzo, ma cominciando precocemente a riscuotere a livello locale (nasce a Sassuolo) un discreto seguito. Costretto su di una sedia a rotelle da una grave forma di poliomielite, contraddistinto da un formidabile impegno politico, non appena esce dalla gabbia delle convenzioni ideologiche del tempo, si fa notare da Caterina Caselli, che fa produrre il suo primo vero e proprio LP dalla CGD. (A proposito, non saremo mai grati a abbastanza a quella incredibile talent scout che è stata Caterina Caselli, produttrice dall’infallibile fiuto). “A muso duro”, che sarà anche il titolo dell’album, è una delle più fortunate canzoni dell’artista, anche se non la migliore. Pierangelo Bertoli componeva melodie e scriveva testi come un artigiano sbozza un ceppo di legno, la sua ispirazione, magari un po’ grezza, è trasparente come il cristallo, i temi da lui trattati sono in genere di argomento sociale, qualche volta intimistico, ma sempre improntati ad un lucido ottimismo della volontà. Non si è mai abbandonato a facili malinconie, la sua condizione non lo ha minimamente limitato. Era una persona fuori dal comune, la sua intelligenza era acuta e penetrante, senza alcun bisogno di solide basi culturali. Ha lanciato e prodotto Luciano Ligabue, il quale, dopo i primi anni, si guarda bene dal ricordare colui che lo ha messo in pista. Pierangelo Bertoli morirà, in seguito alle complicazioni della sua condizione, all’età di circa sessant’anni. Di lui amo ricordare il suo brano migliore (a mio avviso) cantato in coppia con un amico che non lo dimenticherà mai, Fabio Concato: si tratta di "Chiama piano", potete ascoltarla cliccando sul link.
Il secondo, Ivan Graziani, anche lui di umili origini, un figlio dell’Abruzzo, tenacemente attaccato alla sua terra, che emerge in modo più o meno costante nelle sue canzoni. Sicuramente il più prolifico dei tre, ha inciso una quindicina di album, alcuni memorabili, come “Agnese dolce Agnese”, “Pigro”, “Nove” “Seni e coseni”. Dei tre si distingue per essere stato un musicista completo, avendo esordito con Lucio Battisti, Francesco De Gregori, Franco Battiato ecc.  Profondo conoscitore della musica, compone pezzi dapprima per altri, poi per se stesso, iniziando a scriverne i testi. La sua poetica, non erudita così come per Bertoli e per Rosso, è comunque efficace e non priva di una sensibile originalità. Come spesso accade nella storia dei cantautori italiani, i primi dischi sono anche i più articolati e profondi. La canzone “Scappo di casa”, contenuta nell’album “Pigro” è una autentica “rivolta contro la madre”, fortemente autobiografica, con un testo così autentico da risultare, nelle ultime battute, sinceramente commovente “Ma allora perché questo grosso individuo mi chiama balordo / vuole spaccarmi la faccia se non mi tolgo dai piedi / e intanto il padrone del bar / vuole che paghi il mio cappuccino / mi coprirò con le braccia la testa / come facevo da bambino.” Ma sempre sue sono canzoni memorabili come “Fuoco sulla collina” o “Signora bionda dei ciliegi”, canzoni nelle quali ad una genuina ispirazione popolare abbina un rock adattato ai giorni nostri, sempre gradevolissimo. Il suo modo di cantare, che molti ritengono a torto un falsetto, è dovuto semplicemente ad una particolare conformazione delle sue corde vocali, come ricorderà in una intervista postuma, il figlio Filippo. Anche lui completamente rimosso dalla memoria dei media, sopravvive nella memoria di chi lo ha amato e continua a farlo attraverso un sito a lui dedicato su internet. Muore a Novafeltria appena cinquantunenne, in seguito ad un tumore al colon, contratto già nel 1995 (muore nel 1997). Nei due anni di terapia continua l’attività e a fare concerti. Di lui amo ricordare una delle sue più belle canzoni, "Canzone per Susy", che qui potete ascoltare.
Il terzo cantautore dimenticato, romano di Trastevere, anche lui completamente autodidatta, è Stefano Rosso. Conosce un momento di gloria con l’uscita dell’album “Una storia disonesta”, la cui canzone omonima riscuote un discreto successo. Con gli altri due, condivide le umili origini, che generano in lui un reiterato rimpianto per non aver potuto proseguire gli studi, e che spesso veicola nelle sue canzoni. Il secondo album, “E allora senti cosa fò”, inciso per la RCA, gli procura una certa notorietà, ed in effetti contiene  le sue migliori canzoni, anche nel suo caso ispirate a temi politici o sociali, spesso autobiografici. Dopo il terzo LP “Bioradiofotografie”, si reca negli Stati Uniti per cercare una diversa ispirazione, ma il viaggio si rivelerà nella sostanza un flop, e l’ispirazione successiva perderà, col tempo, di smalto e brillantezza. Da segnalare, in seguito ad una delusione amorosa, la sua permanenza, per un paio d’anni nella Legione Straniera. Nonostante non avesse studiato lo strumento, col tempo è diventato un ottimo suonatore di chitarra, fondendo nelle sue opere una originale vena trasteverina con il folk e il country americano, e affinando, con gli anni, l’ottima tecnica del “finger picking”. Morirà sessantenne nella sua Trastevere, di lui amo ricordare la sua canzone migliore, per ispirazione poetica e melodia: "Letto 26", ascoltabile al precedente link.

Come è agevole notare i tre cantautori citati hanno in comune le origini proletarie, una formazione musicale e poetica da autodidatta (con la sola, forse, unica eccezione di Graziani), i temi affrontati nelle canzoni, tutti legati alla terra di origine, alle problematiche sociali e politiche del loro tempo, un certo anticonformismo, l’assoluto disinteresse per il denaro, il gusto di esibirsi per il proprio pubblico, amato profondamente, per il solo piacere di sentirsi in mezzo agli altri, l’assoluto rifiuto di compromessi commerciali. Dispiace, e non poco, che questi (ma se ne potevano citare altri) artisti siano stati dimenticati o quasi dal nostro sistema di comunicazione. Indubbiamente i temi affrontati dalle loro canzoni sono completamente fuori tempo e fuori luogo, e anche questo è un buon motivo per farci riflettere. Loro “sono andati”, per noi che “restiamo” il compito di ascoltare qualche volta le loro canzoni, l’unico modo per non dimenticarli e per fare del bene anche al nostro spirito.