sabato 17 settembre 2011

PERCHE' NON SONO CATTOLICO

Mi pervengono, da qualche tempo, diverse domande sulle motivazioni delle mie scelte religiose, destando qualche meraviglia il fatto che, pur avendo studiato e lavorato, nella mia prima giovinezza, in ambito cattolico, io abbia compiuto la scelta di abiurare la fede nella chiesa romana. Intendiamoci, abiura è una parola grossa, degna di ben altra figura rispetto alla modesta mia, ma, insomma, si è trattato comunque di un ripudio della fede avita. Ora, è fin troppo chiaro che un discorso esaustivo sull’argomento necessiterebbe di ben altra sede ed altro spazio, ma cercherò, in ogni modo, di esporre il più sinteticamente e semplicemente possibile, i capisaldi della mia scelta in materia di fede. Ricordo brevemente a tutti di aver studiato teologia prima in Seminario, poi presso un istituto affiliato ad una facoltà Pontificia, conseguendo il cosiddetto “baccalaureato” in Teologia. In seguito, oltre all’insegnamento della Religione cattolica nelle scuole, ho prestato la mia opera nella Curia Arcivescovile della mia città. Ho conosciuto la Chiesa, dunque, non solo sotto l’aspetto metafisico, ma anche sotto quello pratico, “dal di dentro”.

IL PRIMATO DEL PONTEFICE
Può apparire un argomento secondario, tuttavia il primo impulso che diede vita al mio percorso al di fuori del cattolicesimo fu proprio il ruolo del Pontefice romano. Egli, prima del Conclave, si trovava ad essere un uomo come tutti gli altri, un cardinale, certo, degno del massimo rispetto, ma una creatura come noi. Dopo l’elezione del conclave, che il magistero cattolico ci suggerisce ispirato dal Padre stesso, ne esce un uomo profondamente cambiato, glorificato dall’elezione, quasi un semidio degno non di culto, ma di venerazione. Egli è il vicario di Cristo, il figlio di Dio, l’intermediario in questa terra tra noi e l’assoluto. Quando decide (il che per la verità accade raramente) di parlare “ex cathedra” la sua parola diviene vincolante per tutti i fedeli, entra a pieno titolo nel catechismo per gli adulti, diventa essa stessa parte della “tradizione” della chiesa. A me pareva ovvio tutto il contrario: l’uomo uscito eletto da conclave rimaneva identico a quello entrato nel conclave, non avveniva in lui alcuna trasformazione. Uomo era e uomo restava, con tutti i pregi e i difetti di una creatura umana. Nessun uomo, anche il più dotto e il più pio può considerarsi vicario di Cristo: una creatura non è in grado di rappresentare una divinità, neppure simbolicamente. Trovavo ovvio considerare il Concilio ecumenico al di sopra di un solo uomo: eppure, dal concilio di Trento in poi si è stabilito che il Pontefice ha prerogative maggiori di un concilio. Ma è talmente grande il divario tra la perfezione del Padre e la nostra finitudine che un uomo che si consideri il rappresentante del verbo di Dio dovrebbe essere considerato eretico. E tali considerai da allora in poi i pontefici romani.

LA GIUSTIFICAZIONE
Altro capitolo fondamentale del mio percorso, argomento di difficile trattazione, è quello che riguarda il modo nel quale possiamo, nonostante le nostre innumerevoli lacune, essere giustificati al cospetto di Dio. Il problema della giustificazione nasce dall’esigenza di trovare una risposta umana al tema della salvezza eterna: come possiamo meritare un’anima immortale se i nostri peccati e la nostra malvagità caratterizzano per grande parte la nostra natura? In base a cosa Dio ci elegge, decreta la nostra salvezza, ci redime e ci rende immortali? La dottrina cattolica ci insegna che alla Grazia di Dio, veicolata dai sacramenti, noi possiamo rispondere collaborando al disegno divino, stringendo la mano che ci viene tesa dal Padre. Di qui la meritorietà delle opere. Dio, dal canto suo, ci predispone alla salvezza, a noi compete la scelta se aderire o meno a questo disegno, con la preghiera, con la fede, e anche con le buone opere. Alla fine della nostra esistenza, ci viene insegnato, Dio, come il grande ragioniere dell’universo, fa un conto profitti e perdite della nostra esistenza, e, sulla base di quanto abbiamo compiuto in questo mondo, della sincerità o meno della contrizione che abbiamo provato in punto di morte, decide se precipitarci nel fuoco inestinguibile dell’inferno, farci stazionare per qualche secolo nel Purgatorio, o spedirci direttamente in Paradiso in mezzo agli angioletti. Io non la pensavo così. La natura umana, pensavo, è irrimediabilmente corrotta e propende naturalmente alla malvagità. Per malvagità intendo il puro egoismo, il tornaconto personale ancorchè spirituale. Ma, mi si dirà, ci sono uomini che compiono il bene! E’ vero. Ma il bene va compiuto come norma universale di comportamento, come imperativo categorico, svincolato dal credo religioso cui si appartiene. Molti cattolici, inconsciamente, compiono il bene in vista di un premio finale, il paradiso, per compensare una malefatta, per farsi belli agli occhi degli altri. L’egoismo si manifesta anche nella materia spirituale: se faccio opera di carità in vista di un tornaconto metafisico  è come se non la facessi. La natura umana è talmente imperfetta e degradata da rendere impossibile, di fatto, una collaborazione col disegno divino. Dio ci salva non per le opere, che non contano nulla a livello salvifico, ma per il solo mezzo della fede. Dio ha decretato da sempre, dall’eternità, la nostra salvezza, non è in nostro potere nulla che possa fargli mutare parere. Solo la fede in Cristo ci conferma che alla fine del cammino terreno troveremo un tenero Padre che ci accoglie tra le sue braccia e ci ristora e consola dopo le fatiche terrene. Le buone opere non sono che una conseguenza della fede, chi ha fede in Dio non può che fare il possibile per mitigare quella naturale propensione all’egoismo che alberga in ognuno di noi. Questa è la differenza fondamentale tra la predestinazione relativa (cattolica) e quella assoluta (protestante). Per quanto possiamo sforzarci non possiamo modificare il decreto divino, e non esistono, ovviamente, paradisi o purgatori. Esiste la riassunzione della nostra anima nel nostro principio, del quale non siamo che emanazioni. Tornare a Dio è il nostro fine ultimo e il nostro scopo. 

I SACRAMENTI
Altro spinoso capitolo, che cercherò di esporre brevemente. I sacramenti sono il veicolo della Grazia di Dio, sono il segno tangibile della sua opera nelle nostre anime. Gli unici due sacramenti istituiti direttamente da Cristo, secondo le scritture, sono due: il battesimo e l’eucarestia. Tutti gli altri (cresima, ordine sacro, matrimonio, confessione, estrema unzione) sono stati istituiti molto dopo la sua scomparsa e fanno parte della cosiddetta “tradizione” cattolica. Ora, appare chiaro anche ad un profano che pensare che il matrimonio – una promessa solenne davanti a Dio di fedeltà al coniuge – non può essere considerato un segno della Grazia di Dio, e tantomeno la confessione, che altro non è che una preparazione spirituale all’eucarestia. Tuttavia, la tradizione cattolica li ha voluti considerare tali, per motivi fin troppo ovvii. Conservare una importante prerogativa sul matrimonio o sulla unzione degli infermi costituiva e costituisce tuttora un elemento di presenza e di penetrazione nella società, un modo per conservare e propagandare il proprio verbo.  I sacramenti sono il battesimo, di cui diffusamente si narra nei Vangeli, e la santa cena, o eucarestia, istituita da Cristo medesimo nell’ultima cena. Da notare, tra l’altro, che mentre il sacerdote cattolico, un gradino sopra il fedele, può accostare le labbra al calice del vino, e al fedele non resta che cibarsi del pane sotto forma di ostia, nel mondo protestante la comunione avviene sotto le due specie: i fedeli, a turno, spezzano il pane e dividono il vino, perché non esiste differenza di grado tra pastore e comunità dei fedeli, ma solo di funzione. Il pastore ha il compito di divulgare ed illustrare la parola di Dio, ma ognuno di noi è sacerdote di se stesso: è il “sacerdozio universale dei fedeli”.

LA LITURGIA
Nel mondo protestante il fasto e la pompa della curia romana sono tuttora incomprensibili. Per secoli questa ostentazione di ricchezza, concretatasi nella realizzazione di opere monumentali come chiese, opere statuarie e pittoriche, di alto valore artistico ma di nessun valore spirituale, è stata motivata come la celebrazione della grandezza e della divinità del Cristo. La verità, temo, è ben diversa. Il potere temporale dei papi ha compiuto i disastri e le dissolutezze che ben conosciamo. La Santa Cena protestante, a differenza della Messa cattolica, è massimamente sobria: non ci sono immagini se non il crocefisso, la chiesa è spoglia, austera, il pastore parla dal pulpito non recitando una omelia, ma invitando i fedeli a riflettere su questo o quell’argomento. Largo spazio è lasciato ai canti, una parte fondamentale della coralità della comunità dei fedeli. Nella messa cattolica sopravvive una formula che già il Concilio vaticano II accennava a sostituire: la ripetizione di formule stanche e monocordi, cui i fedeli dovrebbero rispondere con altrettante frasi mandate a memoria e ripetute meccanicamente. Nel protestantesimo non c’è iconoclastia: le immagini non sono bandite in quanto ritenute strumento del demonio, ma semplicemente perché l’unico oggetto del culto, nel monoteismo assoluto, è Dio e il suo Figlio unigenito. Nel tabernacolo, una volta consacrata l’ostia, per i cattolici è realmente presente il corpo ed il sangue di Cristo. E’ quella che si chiama transustanziazione. Noi esseri umani vediamo gli accidenti del pane e del vino, ma nella realtà il corpo ed il sangue sono là, davanti a noi. Secondo la dottrina di Zwingli, il riformatore zurighese, la presenza di Cristo è puramente simbolica, spirituale. La santa cena non è che un memoriale del suo sacrificio per noi. Per i cattolici, ogni volta che si ha la consacrazione (prerogativa del solo sacerdote) si rinnova ogni volta il sacrificio. La posizione di Lutero fu più accomodante rispetto a quella di Zwingli, motivando così una prima spaccatura tra il luteranesimo e il calvinismo che fu sempre ispirato dall’opera del primo riformatore svizzero. Può apparire un sofisma, lo ammetto, ma è una differenza fondamentale. Se veramente noi crediamo che nel tabernacolo sia presente il Cristo in corpo e sangue, possiamo credere a qualsiasi altra cosa, come vedremo più avanti. Più razionali e sobri, i protestanti preferirono aderire al puro simbolismo del memoriale del sacrificio del Golgota.

CULTO E INTERCESSIONE DEI SANTI
Una delle differenze più profonde ed irrimediabili è costituita dal culto dei santi e della Madonna. I cattolici hanno ereditato dal mondo pagano ellenistico, l’olimpo dei santi attorno a Dio Padre. La loro intercessione non è altro che, tradotta in termini volgari, la richiesta di una raccomandazione a favore di un povero mortale da parte del santo prediletto. In determinate circostanze, poi, come il giubileo, chiunque si rechi a Roma, faccia penitenza, versi possibilmente un obolo a San Pietro, può beneficiare di una indulgenza plenaria, e vedersi mondato da ogni peccato. Non siamo al traffico delle indulgenze, ma è il concetto stesso di “indulgenza”ad essere profondamente anticristiano. Il culto dei santi è stato assecondato dalla chiesa romana per un ovvio motivo di controllo sociale, di propaganda di una fede distorta, che sconfina quasi sempre nella superstizione e nella idolatria. Il culto stesso della Vergine, privo di alcun senso teologico, è stato portato avanti per fornire una consolazione, una compensazione alle donne, da sempre escluse dal sacerdozio. La madre di Cristo è degna di tutto il rispetto possibile, me non può e non deve essere oggetto di culto, non avendo conseguito, in quanto madre di Cristo, dei meriti particolari. Il fatto, poi, che le donne, nel 2011, siano ancora escluse dal sacerdozio ha semplicemente dell’incredibile. 

I COSTUMI, LA MORALE
Il solo fatto che esista ancora oggi il celibato dei sacerdoti costituisce una insanabile contraddizione, che provoca spesso distorsioni inaccettabili (omosessualità, pedofilia, rapporti clandestini)e che non ha alcun valore teologico. Il rifiuto dell’aborto in ogni caso (comprese le violenze sessuali), una prima cauta apertura alla contraccezione, il rifiuto netto a qualsiasi forma di eutanasia, l’inviolabilità del matrimonio (salvo l’annullamento da parte della Sacra rota dietro lauti compensi), il rigetto del divorzio, sono tutti aspetti che collocano la chiesa di Roma al di fuori del tempo e dello spazio. Per troppi secoli i Pontefici hanno avuto delle prerogative temporali e politiche tali da ravvisarne le conseguenze ancora oggi. Il solo fatto che esiste una Banca vaticana è una contraddizione in termini. Le gerarchie cattoliche di oggi hanno preso il posto del tribunale del sinedrio e dei farisei dei tempi di Cristo, e hanno fatto di una fede viva un insieme di norme morte. Spesso i protestanti sono accusati di aver una visione pessimistica dell’uomo e della sua sorte. Un classico esempio è costituito dalla filmografia di Ingmar Bergman. Non si tratta di pessimismo, ma di guardare impietosamente dentro le nostre anime, di scandagliare le nostre coscienze. Vedremo poca pietà, poco amore, molta durezza, uno smisurato egoismo. C’è altresì una gioia nello scoprirsi cristiani, finalmente liberi delle pastoie rituali e liturgiche del cattolicesimo, è la ”libertà del cristiano”. La fede ci sorregge, ne siamo felici e fieri, proviamo gioia nello scoprirci parte di tutto , di quel Dio che ci ha generato, ci sentiamo liberi di peccare, qualche volta, ma di confidare pure nella misericordia divina. Non significa autoassolversi. Gli ipocriti trovano sempre scappatoie e facili assoluzioni. Significa essere consapevoli in ogni momento di quello che siamo e che compiamo, ma con davanti a noi, ai nostri occhi, al termine della nostra esistenza terrena, quell’anelito che ci ha fatto muovere i primi passi e che si conclude solo con la nostra morte e il nostro passaggio a Colui che ci ha generato e di cui siamo una piccola ma non trascurabile particella.