mercoledì 11 maggio 2016

COSA ABBIAMO FATTO PER MERITARCI UN SIMILE MINISTRO DELL’ISTRUZIONE?




Cosa ha detto davvero il ministro a Luca Steinmann, freelance svizzero? La verità è contenuta in un articolo del Corriere del Ticino, che ha riportato nelle ultime ore in modo fedele gli appunti che il giornalista aveva trascritto nel suo colloquio con il ministro.
STEINMANN: Quali sono gli aspetti obsoleti del sistema di formazione che secondo lei andrebbero rimossi?
GIANNINI: L’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d’istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un’impronta più pratica all’istruzione italiana, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica.
S:L’istruzione italiana è però quasi sempre il motivo per il quale gli studenti italiani trapiantati all’estero eccellono rispetto ai propri coetanei stranieri. Io stesso ho vissuto questo privilegio in prima persona e sono sicuro che chiunque si sia trovato in questa situazione possa essere d’accordo. I rapporti tra la cultura italiana e quella tedesca, inoltre, si fondano sull’elemento classico: il padre di questo legame, cioè Goethe, giunse in Italia proprio alla ricerca delle radici del classicismo e che le trovò a Siracusa e non ad Atene.
G: Certamente non dobbiamo rinnegare le radici classiche del sistema italiano, è però necessario stare al passo coi tempi e colmare la lacuna che ci divide dai Paesi competitivi. Il mercato richiede la formazione di personale flessibile e un’impostazione troppo teorica del sistema italiano rischia di essere d’intralcio.
S: A proposito della flessibilità: tale concetto viene in Italia considerato equivalente a quello di precariato. Si può dunque affermare che la flessibilità non sia sinonimo di malessere?
G: Sì. Flessibilità deve voler dire dinamismo e mobilità del lavoro e delle persone, anche se spesso viene tristemente associato alla precarietà. Con le riforme vogliamo introdurre una flessibilità virtuosa sia sociale che professionale.
S: Un modello di questo tipo è, per esempio, quello americano, la cui economia americana si fonda sulla flessibilità, quindi su quello che viene chiamato precariato, anche se è spesso pagato molto meglio rispetto all’Italia. Il responsabile economico del Pd Filippo Taddei ha detto che il massimo modello al quale l’Italia può aspirare è quello americano. Condivide tali posizioni?
G: Sì, purché si ricordi che nessun modello è esattamente replicabile e che l’Italia ha le sue particolarità che vanno mantenute. E’ comunque necessario procedere nella direzione di rendere il mercato più flessibile. La rigidità novecentesca va abbattuta. Le persone devono potersi muovere e spostarsi a seconda di ogni evenienza umana e lavorativa.
S: Sempre Taddei ha dichiarato che bisognerebbe “tassare ciò che è immobile per favorire ciò che è mobile”. In un tale sistema per gli individui è sicuramente più difficile avere delle certezze. Penso soprattutto alle donne, che solo per motivi biologici hanno bisogno di forse maggiori garanzie nel breve o medio periodo rispetto agli uomini, anche per avere il tempo per decidere serenamente se avere o meno dei bambini. E’ d’accordo?
G: Sì, sono d’accordo. Io stessa, appena avuto il primo figlio, ha lasciato geograficamente casa mia per andare a lavorare lontano, lasciando al padre il compito di occuparsi quotidianamente del bambino. Il mio è stato un comportamento atipico per quel tempo, ma dovrà rientrare nella normalità in futuro, perché anche le donne devono potersi spostare. Certo è che quella delle donne è una delle più grandi sfide all’interno del nuovo sistema a cui andiamo incontro.
S: Un elemento di novità sarà sicuramente rappresentato anche dalla famiglia. In un sistema flessibile come quello descritto, difficilmente ci sarà spazio per la famiglia come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, che difficilmente verrà intesa come forma di stabilità e di sicurezza per l’individuo.
G: E’ vero, io stessa ho avuto la fortuna di ricevere stabilità e sicurezze da parte della mia famiglia. Il modello che è stato promosso dalla generazione dei miei genitori, nati entrambi negli anni 20, è però destinato a mutare inevitabilmente con la società che, diventando più flessibile, necessita che lo siano anche i nuclei famigliari. Mi piacerebbe che in futuro la flessibilità venisse considerata come sinonimo di apertura.
Il Corriere del Ticino continua, nel riportare gli appunti di Steinmann:
In occasione dello stesso evento il Ministro tedesco Wanka ha detto pubblicamente – e forse provocatoriamente – che l’unico settore in cui la Germania sta vivendo un calo di produttività è quello della natalità, sottolineando come l’Italia e la Germania abbiano dati di decrescita demografica praticamente uguali, nonostante i dati economici pongano i due Paesi alle estremità opposte delle classifiche. Così dicendo ha evidenziato che la competitività figlia di un mercato flessibile non si traduce automaticamente in un aumento delle nascite. Le parole del ministro Giannini ne spiegano esattamente il perché: il concetto di flessibilità si fonda su una mobilità che rende più difficile la creazione di una stabilità, famigliare o individuale, almeno prima dei trent’anni.
In questi termini è prevedibile che la famiglia come l’abbiamo conosciuta cessi di esistere; che anche in caso di miglioramento della situazione economica italiana il cosiddetto ‘inverno demografico’ si prolunghi; e che la fascia di persone più colpita in negativo dal progresso che stiamo vivendo rischino di essere le donne.
Il Ministro Wanka ha dichiarato pubblicamente, sempre in occasione dell’evento in questione, che la crisi demografica tedesca può essere controbilanciata dall’arrivo dei migranti. In questi termini, ha spiegato, l’arrivo di nuove persone va ad assumere una importante funzione economica e sociale.
Le politiche di accoglienza potrebbero quindi non avere solo una funzione umanitaria, cioè quella sacrosanta di aiutare chi fugge da guerre o situazioni difficile, ma che risponda anche ad una necessità economica alla quale i Paesi flessibili e competitivi vanno incontro. Ciò è un riconoscimento da parte di chi governa che la Germania abbia bisogno dei migranti. Dobbiamo dunque prendere in considerazione il fatto che se l’Italia colmerà la discrepanza con i Paesi più produttivi – come la Germania – le politiche di accoglienza potrebbero andare a rivestire una funzione sempre più economica e non solo umanitaria.
 Filosofo Fusaro: “la scuola italiana sta morendo: così vuole il Capitale”
Le precisazioni del Ministero dell’Istruzione non sono servite a nulla, se non a rinfocolare il dibattito sui vari social network. In un altro intervento pubblicato su Lettera43, il filosofo Fusaro ha rincarato la dose:
“La scuola italiana sta morendo: così vuole il Capitale” E ancora: “Come solo obiettivo ha la creazione di atomi. Senza diritto, educazione né pensiero. E la Giannini non fa che confermarlo”.
Così Fusaro:
Sicché, dice ancora la Giannini, «l’Italia deve prendere spunto dalla Germania e colmare la discrepanza che ci divide dai tedeschi. L’accordo odierno è solo l’ultimo passo dopo il Jobs Act e la Buona Scuola per riformare radicalmente il nostro sistema». Capito? Prepariamoci. La distruzione definitiva della scuola italiana è dietro l’angolo. La scuola non ha più il compito di formare esseri umani consapevoli della loro storia e del loro futuro: deve invece produrre puri atomi pronti a essere inseriti nel mercato del lavoro flessibile e precario. Parole della Giannini: «Dobbiamo tendere sempre più verso un modello americano, in cui la flessibilità, che è sinonimo di precariato, è la base di tutto il sistema economico. […] L’esempio al quale tendiamo sono gli Stati Uniti e dobbiamo sognare gli Stati Uniti d’Europa. […] Non ci sarà più spazio per la famiglia come la intendiamo oggi».
Ancora Fusaro:
Definire oscene, raccapriccianti e deliranti queste parole è essere generosi. Il capitale mira a flessibilizzare la vita e l’intera natura umana: mira a renderci tutti precari e senza diritti, migranti e senza famiglia, sradicati e deterritorializzati, schiavi sempre disponibili e senza alcuna garanzia. Alla dissoluzione delle identità si accompagna la disgregazione del radicamento: l’homo instabilis deve, per sua natura, essere portatore di un’identità e di una territorialità nomadi e mai stabilizzate, sempre modificabili secondo le sollecitazioni dell’economico e, dunque, incessantemente pronte a essere ridefinite”