Cosa ha
detto davvero il ministro a Luca Steinmann, freelance svizzero? La
verità è contenuta in un articolo del Corriere del
Ticino, che ha riportato nelle ultime ore in modo fedele gli appunti
che il giornalista aveva trascritto nel suo colloquio con il ministro.
STEINMANN: Quali sono gli aspetti obsoleti
del sistema di formazione che secondo lei andrebbero rimossi?
GIANNINI: L’Italia paga un’impostazione
eccessivamente teorica del sistema d’istruzione, legata alle nostre radici
classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone
altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere
un’impronta più pratica all’istruzione italiana, svincolandola dai limiti che
possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica.
S:L’istruzione italiana è però quasi
sempre il motivo per il quale gli studenti italiani trapiantati all’estero
eccellono rispetto ai propri coetanei stranieri. Io stesso ho vissuto questo
privilegio in prima persona e sono sicuro che chiunque si sia trovato in questa
situazione possa essere d’accordo. I rapporti tra la cultura italiana e quella
tedesca, inoltre, si fondano sull’elemento classico: il padre di questo legame,
cioè Goethe, giunse in Italia proprio alla ricerca delle radici del classicismo
e che le trovò a Siracusa e non ad Atene.
G: Certamente non dobbiamo rinnegare
le radici classiche del sistema italiano, è però necessario stare al passo coi
tempi e colmare la lacuna che ci divide dai Paesi competitivi. Il mercato
richiede la formazione di personale flessibile e un’impostazione troppo
teorica del sistema italiano rischia di essere d’intralcio.
S: A proposito della flessibilità: tale
concetto viene in Italia considerato equivalente a quello di precariato. Si può
dunque affermare che la flessibilità non sia sinonimo di malessere?
G: Sì. Flessibilità deve voler dire
dinamismo e mobilità del lavoro e delle persone, anche se spesso viene
tristemente associato alla precarietà. Con le riforme vogliamo introdurre una
flessibilità virtuosa sia sociale che professionale.
S: Un modello di questo tipo è, per
esempio, quello americano, la cui economia americana si fonda sulla
flessibilità, quindi su quello che viene chiamato precariato, anche se è spesso
pagato molto meglio rispetto all’Italia. Il responsabile economico del Pd
Filippo Taddei ha detto che il massimo modello al quale l’Italia può aspirare è
quello americano. Condivide tali posizioni?
G: Sì, purché si ricordi che nessun
modello è esattamente replicabile e che l’Italia ha le sue particolarità che
vanno mantenute. E’ comunque necessario procedere nella direzione di rendere il
mercato più flessibile. La rigidità novecentesca va abbattuta. Le
persone devono potersi muovere e spostarsi a seconda di ogni evenienza umana e
lavorativa.
S: Sempre Taddei ha
dichiarato che bisognerebbe “tassare ciò che è immobile per favorire ciò
che è mobile”. In un tale sistema per gli individui è sicuramente più difficile
avere delle certezze. Penso soprattutto alle donne, che solo per motivi
biologici hanno bisogno di forse maggiori garanzie nel breve o medio periodo rispetto
agli uomini, anche per avere il tempo per decidere serenamente se avere o meno
dei bambini. E’ d’accordo?
G: Sì, sono
d’accordo. Io stessa, appena avuto il primo figlio, ha lasciato geograficamente
casa mia per andare a lavorare lontano, lasciando al padre il compito di
occuparsi quotidianamente del bambino. Il mio è stato un comportamento
atipico per quel tempo, ma dovrà rientrare nella normalità in futuro, perché
anche le donne devono potersi spostare. Certo è che quella delle donne è una
delle più grandi sfide all’interno del nuovo sistema a cui andiamo incontro.
S: Un
elemento di novità sarà sicuramente rappresentato anche dalla famiglia. In un
sistema flessibile come quello descritto, difficilmente ci sarà spazio per la
famiglia come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, che difficilmente verrà intesa
come forma di stabilità e di sicurezza per l’individuo.
G: E’ vero,
io stessa ho avuto la fortuna di ricevere stabilità e sicurezze da parte della
mia famiglia. Il modello che è stato promosso dalla generazione dei miei
genitori, nati entrambi negli anni 20, è però destinato a mutare
inevitabilmente con la società che, diventando più flessibile, necessita che lo
siano anche i nuclei famigliari. Mi piacerebbe che in futuro la flessibilità
venisse considerata come sinonimo di apertura.
Il Corriere
del Ticino continua, nel riportare gli appunti di Steinmann:
In occasione
dello stesso evento il Ministro tedesco Wanka ha detto pubblicamente – e forse
provocatoriamente – che l’unico settore in cui la Germania sta vivendo un calo
di produttività è quello della natalità, sottolineando come l’Italia e la
Germania abbiano dati di decrescita demografica praticamente uguali,
nonostante i dati economici pongano i due Paesi alle estremità opposte delle
classifiche. Così dicendo ha evidenziato che la competitività figlia di un
mercato flessibile non si traduce automaticamente in un aumento delle nascite.
Le parole del ministro Giannini ne spiegano esattamente il perché: il concetto
di flessibilità si fonda su una mobilità che rende più difficile la creazione
di una stabilità, famigliare o individuale, almeno prima dei trent’anni.
In questi
termini è prevedibile che la famiglia come l’abbiamo conosciuta cessi di
esistere; che anche in caso di miglioramento della situazione economica
italiana il cosiddetto ‘inverno demografico’ si prolunghi; e che la fascia di
persone più colpita in negativo dal progresso che stiamo vivendo rischino di
essere le donne.
Il Ministro
Wanka ha dichiarato pubblicamente, sempre in occasione dell’evento in
questione, che la crisi demografica tedesca può essere controbilanciata
dall’arrivo dei migranti. In questi termini, ha spiegato, l’arrivo di nuove
persone va ad assumere una importante funzione economica e sociale.
Le politiche
di accoglienza potrebbero quindi non avere solo una funzione umanitaria,
cioè quella sacrosanta di aiutare chi fugge da guerre o situazioni difficile,
ma che risponda anche ad una necessità economica alla quale i Paesi flessibili
e competitivi vanno incontro. Ciò è un riconoscimento da parte di chi governa
che la Germania abbia bisogno dei migranti. Dobbiamo dunque prendere in
considerazione il fatto che se l’Italia colmerà la discrepanza con i Paesi più
produttivi – come la Germania – le politiche di accoglienza potrebbero andare a
rivestire una funzione sempre più economica e non solo umanitaria.
Filosofo Fusaro: “la scuola italiana sta morendo: così
vuole il Capitale”
Le
precisazioni del Ministero dell’Istruzione non sono servite a nulla, se non a
rinfocolare il dibattito sui vari social network. In un altro intervento
pubblicato su Lettera43, il
filosofo Fusaro ha rincarato la dose:
“La scuola
italiana sta morendo: così vuole il Capitale” E ancora: “Come solo obiettivo
ha la creazione di atomi. Senza diritto, educazione né pensiero. E la
Giannini non fa che confermarlo”.
Così Fusaro:
Sicché, dice
ancora la Giannini, «l’Italia deve prendere spunto dalla Germania e colmare la
discrepanza che ci divide dai tedeschi. L’accordo odierno è solo l’ultimo passo
dopo il Jobs Act e la Buona Scuola per riformare radicalmente il nostro
sistema». Capito? Prepariamoci. La distruzione definitiva della scuola
italiana è dietro l’angolo. La scuola non ha più il compito di formare
esseri umani consapevoli della loro storia e del loro futuro: deve invece
produrre puri atomi pronti a essere inseriti nel mercato del lavoro flessibile
e precario. Parole della Giannini: «Dobbiamo tendere sempre più verso un
modello americano, in cui la flessibilità, che è sinonimo di precariato, è
la base di tutto il sistema economico. […] L’esempio al quale tendiamo sono
gli Stati Uniti e dobbiamo sognare gli Stati Uniti d’Europa. […] Non ci sarà
più spazio per la famiglia come la intendiamo oggi».
Ancora
Fusaro:
“Definire
oscene, raccapriccianti e deliranti queste parole è essere generosi. Il
capitale mira a flessibilizzare la vita e l’intera natura umana: mira a
renderci tutti precari e senza diritti, migranti e senza famiglia, sradicati e
deterritorializzati, schiavi sempre disponibili e senza alcuna garanzia. Alla
dissoluzione delle identità si accompagna la disgregazione del radicamento:
l’homo instabilis deve, per sua natura, essere portatore di un’identità e di
una territorialità nomadi e mai stabilizzate, sempre modificabili secondo le
sollecitazioni dell’economico e, dunque, incessantemente pronte a essere
ridefinite”