mercoledì 1 aprile 2015

L'EDUCAZIONE PRIVATIZZATA




Il dispositivo di legge

Il “lavoro”, in senso sia simbolico che pratico, costituisce un elemento portante nel Ddl presentato pochi giorni or sono. Un elemento dal contenuto fortemente simbolico è, senza dubbio, l’inedito allargamento dell’alternanza scuola-lavoro anche ai licei (per un monte-ore non inferiore a 200 ore nell’arco del triennio). Non si tratta, leggendo il testo di legge, di una sorta di “servizio del lavoro” obbligatorio per i liceali, ma solamente di un’opzione offerta alle scuole, previa individuazione delle aziende disponibili sul territorio, nell’ambito dell’elaborazione del loro “Piano triennale dell’offerta formativa”.

Se, chiaramente, la conoscenza diretta della realtà del mondo del lavoro, per gli adolescenti, non è certo un male, l’articolato della legge è segnato tuttavia certamente da un tratto ideologico: dal momento in cui un’alternanza scuola-lavoro non è finalizzata, al liceo, scuola istituzionalmente indirizzata allo sbocco negli studi universitari, ad “imparare un mestiere”, allora l’alternanza scuola-lavoro si presenta come una sorta di iniziazione alle dinamiche del mercato e dell’azienda. Si tratta, insomma, di una risposta politica alla tesi per cui le difficoltà occupazionali dei giovani dipenderebbero da fattori psicologici, dall’essere troppo “bamboccioni” o “choosy” nella scelta delle occupazioni. Tra l’altro, le ultime esternazioni del ministro del lavoro Poletti, secondo cui “tre mesi di vacanza sono troppi”, perciò tutti i giovani dovrebbero svolgere ogni anno un periodo estivo di formazione-lavoro (non si capisce in che modo, magari con un “servizio di leva” del lavoro), sembra dichiarare in modo esplicito qual è l’ispirazione programmatica (e “morale”) di questo aspetto del disegno di legge.

L’impatto più rilevante sul lavoro, il ddl “La Buona scuola” lo esercita, indubbiamente – come emerge da tutti, o quasi, i commenti a caldo – sul lavoro docente. Se la riconsiderazione della “carriera” mediante l’attribuzione “meritocratica” degli scatti di anzianità al solo 66% dei docenti di ogni istituto, presente nelle linee guida del settembre 2014, è stata eliminata, e il premio discrezionale alle “eccellenze” (massimo il 5% del corpo docente) rasenta il ridicolo, tuttavia viene inserito un articolo che prefigura una vera e propria ridefinizione dello statuto del lavoro docente: tutti i nuovi assunti verrebbero inseriti in “Albi provinciali” (già presenti nella Legge Aprea, non approvata nella scorsa legislatura per le forti opposizioni del mondo della scuola) dai quali i presidi sceglierebbero i docenti più adatti all’”offerta formativa” del proprio istituto. Questi docenti non avrebbero una cattedra definitiva, ma un incarico triennale, rinnovabile dal preside stesso. Così come avvenuto nella legislazione sul lavoro degli ultimi decenni, compiutasi con il Jobs Act, i nuovi assunti godono di minori tutele e minori diritti, determinando un dualismo che indebolisce la posizione complessiva e il potere contrattuale dei lavoratori tutti.

L’insegnante: deriso ma resiliente

Per comprendere pienamente il senso di tale provvedimento, credo occorra sprovincializzare lo sguardo, contestualizzarlo in un quadro internazionale, inserendolo dentro un processo oramai ventennale: all’interno dell’attacco allo statuto ed al potere contrattuale del lavoro, l’attacco al lavoro degli insegnanti. La riforma italiana viene dopo le riforme inglesi, statunitensi, neozelandesi, australiane, greche e, più recentemente, messicane, che hanno come loro tratto comune la crescita della subordinazione degli insegnanti rispetto al controllo centrale del governo e del “management” scolastico. Tutte si sono venute realizzando all’interno di un programma di trasformazione dell’assetto dell’educazione che la sociologa britannica Sharon Gewirtz ha definito con la felice espressione di “managerial school”, una scuola orientata alla concorrenza di mercato e non più all’attuazione del welfare.

Sin dall’Education Act della Thatcher, dell’88, che rappresenta il prototipo delle riforme neoliberiste dell’educazione, gli insegnanti sono divenuto oggetto di un “messaggio derisorio” – secondo l’espressione del sociologo Stephen Ball – teso a imputare loro le responsabilità maggiori della crisi della scuola di massa. Bersaglio principale delle riforme le organizzazioni sindacali, accusate di trasformare la scuola, da servizio pubblico, in servizio ad uso e consumo di chi ci lavora (era questo, il senso, ad esempio, della nota frase della Gelmini, sulla scuola come “ammortizzatore sociale”).

È senza dubbio lecito considerare l’indebolimento dello status degli insegnanti come l’effetto di un più generale, e innegabile, attacco su scala globale al lavoro. Ma nell’attacco agli insegnanti, e ai loro diritti, sembra prefigurarsi anche un processo che riguarda lo status e la posizione dell’insegnante nel processo di trasmissione e riproduzione dei saperi. Là dove le scienze sociali hanno riflettuto, negli ultimi decenni, sulla figura degli insegnanti e, più in generale, sulle riforme neoliberiste dell’istruzione, in Inghilterra e Francia (molto poco in Italia), sono emerse delle linee interpretative che cercano di dare una visuale d’insieme all’intero processo. Ad esempio, Gill Helsby (in uno dei rarissimi testi tradotti in italiano della letteratura sociologica sul tema), afferma che gli insegnanti, nella “managerial school” inglese, “da professionisti in grado di operare scelte curricolari” vengono trasformati “in tecnici bisognosi di direttive precise ed esecutori di ordini stabiliti altrove”. Altri hanno affermato che la linea di tendenza generale fosse quella della forte propensione degli apparati politico-amministrativi non solo a far arretrare gli insegnanti nella scala dei redditi, ma a ridimensionare il loro status, declassandoli da professionisti, dotati di una relativa autonomia di scelta e di giudizio, in impiegati, dediti al lavoro esecutivo di somministrazione di programmi e moduli didattici preparati, fin nel dettaglio, da altri (insegnanti cosiddetti “esperti”, agenzie specializzate, ma anche aziende di software didattico).

L’impressione è di trovarsi ad un crocevia. Nel senso di stare all’interno di uno scenario molto confuso e imprevedibile. Infatti, da un lato rimane molto forte la pressione a favore di un’istruzione “eterodiretta” e, possibilmente, privatizzata (tanto nella modalità della “proprietà” e dell’”indirizzo” quanto della forma di finanziamento o della trasformazione in senso “manageriale” di scuole che restano, tuttavia, formalmente pubbliche) poiché in questo senso congiurano sia le forze politiche di orientamento neoliberale quanto le organizzazioni e le corporation transnazionali (l’apertura al mercato dell’istruzione è stata uno dei temi nell’agenda del WTO e adesso del TTIP euro-americano).

Dall’altro, le stesse contraddizioni dell’operare dei governi, primo fra tutti quello italiano che, pur consegnandoci oggi un pessimo Ddl, lo ha rinviato e modificato nei contenuti innumerevoli volte, fanno pensare che l’opzione fondata sulla privatizzazione, l’aziendalizzazione, la performance, la retorica del capitale umano, stia urtando contro un “fondo” viscoso e duro, la cui resilienza è piuttosto difficile da scalfire.

Resilienza sociale, perché il concetto che la scuola pubblica è l’unico modo per garantire standard e spesa pro capite per allievo il più possibile uniformi fa parte della coscienza collettiva perlomeno quanto l’idea che l’acqua costituisca un bene primario sul quale speculare è odioso. Ma anche culturale, e, direi antropologica. Le problematiche della “bildung”, della formazione della persona, hanno una storia di lunga, lunghissima durata. I problemi inerenti il rapporto maestro-allievo su cui ragionavano Socrate, Quintiliano, Erasmo, Vittorino da Feltre, Pestalozzi, non sono poi così dissimili dai discorsi sull’educazione odierni, e neppure dal senso comune di insegnanti, allievi, genitori del presente. Cose che, una volta “aziendalizzate”, sono già distrutte, e il danno provocato resta molto difficile da nascondere. In questa contraddizione, c’è un varco (qui in Italia credo lo stia tenendo aperto la LIP, ma anche dell’altro che si tiene celato, poco visibile, ed altro ancora che va collettivamente costruito).  (source)