venerdì 13 aprile 2012

GIU' LA TESTA


Dopo la breve parentesi montiana, durata circa sei mesi, ci ritroviamo, con qualche differenza, nella medesima situazione dello scorso autunno. Lo spread è tornato intorno ai 400 punti, un limite non sopportabile da nessuna economia, le borse registrano un crollo dopo l’altro, i titoli bancari sono oggetto di vendite continue, collezionando una batosta dopo l’altra. Il gruppo Monte dei Paschi sta attraversando un periodo di passione, e si avvia ad essere il primo gruppo bancario italiano ad essere obbligato a ricorrere ad un aiuto. E non è un buon segno. Tutto ci fa rientrare nel tunnel dal quale avevamo timidamente, per un momento, rialzato il capo. Ma no, niente, giù la testa, nuovamente, e questa volta per un pezzo. I dati deludenti dell’occupazione americana, la Cina che  arresta la sua crescita all’8.1%, le banche spagnole che chiedono un prestito alla BCE di circa 227 miliardi di euro, l’impennata dei CDS (credit default swap), le polizze sui titoli a difficile esigibilità, le riforme del mercato del lavoro italiana e spagnola che si sono letteralmente impantanate. Vi basta? L’effetto Monti è terminato, ma, non dimentichiamolo, il governo Monti si ritrova a fare in un anno quello che i paesi progrediti del nord Europa hanno fatto in dieci anni. La riforma della previdenza, iniziata in Germania venti anni fa, una manovra finanziaria che, pur essendo troppo sbilanciata sulla pressione fiscale, andava varata almeno due anni fa, invece di occuparsi dei guai giudiziari di Berlusconi, di Ruby Rubacuori, di case di Montecarlo e di lodi Schifani. Un decreto sulle liberalizzazioni appena abbozzato, è vero, ma che doveva da tempo essere in agenda. Ora l’errore che sta facendo Monti è quello, duole ammetterlo, di non aver blindato la riforma del mercato del lavoro, abrogando completamente l’art. 18, e modellandolo sui parametri europei. Doveva essere posta la fiducia anche sulla riforma del lavoro, prendere o lasciare. E poi avviare l’ultima fase del suo governo, il processo di privatizzazioni. Molti mi domandano perché l’Italia è bersagliata dagli speculatori internazionali. Perché è il ventre molle, con Portogallo, Irlanda e Spagna dell’Europa. Abbiamo un debito pubblico elevatissimo, rapportato ad un PIL col segno negativo, indice di recessione sicura, le misure restrittive e la pressione fiscale, deprimendo i consumi e l’iniziativa imprenditoriale con la stretta creditizia (il credit crunch) hanno fatto il resto. Ci stiamo strangolando da soli, avvitandoci sul debito, inseguendolo senza mai raggiungerlo. Le imposizioni fiscali forniscono un gettito immediato, ma sul lungo termine, le uniche iniziative che pagano veramente sono le politiche dello sviluppo economico. Ma per fare  in modo che le imprese straniere investano in Italia è necessaria una riforma del mondo del lavoro che lo liberi dalle pastoie burocratiche e soprattutto conferisca flessibilità al lavoro stesso. Soprattutto in entrata, ma anche in uscita. Perché una impresa straniera dovrebbe avere convenienza ad investire in un paese con una classe operaia fortemente politicizzata, rivendicativa in senso conservatore, dove le infrastrutture sono spesso insufficienti (al mezzogiorno) o inadeguate. Un paese con una classe politica inetta e corrotta, al pari di quella greca. Siamo vulnerabili, perché nonostante la faccia tranquillizzante di Monti avesse per qualche tempo fatto dimenticare al mondo di che stoffa siamo fatti, ci hanno pensato i politici di casa nostra a farcelo drammaticamente ricordare. Gli scandali dei rimborsi ai partiti, prima della Margherita, poi della Lega e poi di tutti gli altri, gli scandali della regione Lombardia, un arresto dopo l’altro, una banda di malfattori a governare la più avanzata delle regioni italiane. Tutto questo ha fatto di colpo ricordare al mondo che l’Italia riamane il pese dei “mariuoli”, degli Schettino, dell’arte di arrangiarsi cercando di fare fessi gli altri. Siamo bersagliati, in un parola sola, perché siamo italiani. Le eccezioni non mancano, Mario Monti stesso, Mario Draghi, e diversi altre personalità di spicco, ma il paese rimane quello che è: un’accozzaglia di staterelli messi assieme malamente e recentemente dal risorgimento, conservando tutte le diversità e le divisioni che non contribuiscono di certo a fare di noi una “nazione”. Monti non può fare in un anno il lavoro (manovra fiscale, riforma del mercato del lavoro, liberalizzazioni, riforma della previdenza, privatizzazioni) che i governi imbelli che lo hanno preceduto non hanno saputo o voluto fare in vent’anni. Siamo in ritardo, in grave ritardo, abbiamo vissuto, come gli spagnoli, al di sopra delle nostre possibilità per troppo tempo. Se avessimo iniziato la politica dei sacrifici qualche decennio fa, non ci troveremmo in questa situazione. Ora, però, a differenza del tempo di Berlusconi, abbiamo qualche elemento in più su cui riflettere:
1)      Monti è stata la migliore delle scelte possibili. Il nostro paese, con la classe politica che si ritrova, non era in grado di esprimere nulla di meglio. Il suo parziale fallimento, tenendo presente che la sua era comunque una impresa impossibile, ci riporta ai livelli occupazionali, inflattivi, di deficit pubblico e recessivi dello scorso anno. Monti stesso, sarà costretto ad una nuova manovra finanziaria entro l’anno (meglio d’estate), una manovra fatta di tagli alla spesa pubblica, e, questa volta, di una patrimoniale vera sui beni mobili (le rendite finanziarie). Con il ritorno dell’iniziativa ai partiti politici non possiamo che arretrare ulteriormente.
2)      La situazione macroeconomica sta degenerando di mese in mese. Ci sono diverse bolle non ancora esplose, come quella dei derivati, incamerati praticamente da tutti i nostri istituti di credito e non solo. La questione dei debiti sovrani non si può risolvere, per il semplice fatto che la politica dell’austerity e del fiscal compact imposta dalla Germania è solo depressiva e costringe i paesi che vi si adattano ad entrare nel circolo vizioso dell’inseguimento del debito. Il rigore non si sposa con la ripresa, conduce solamente ad un lento ma inesorabile declino.
3)      La mai realizzata unione politica europea ci condanna al fallimento a catena. Nessun paese è al sicuro, ha ragione Draghi nel dire che l’euro è una moneta “irreversibile”, ma quando le tensioni sono troppo forti, le banche non fanno più le banche, il sistema previdenziale e assistenziale va in tilt, lo Stato non è più in grado di garantire pensioni e stipendi correnti, strangolato dal debito che è costretto a ripagare continuamente, beh, c’è poco da fare. Ricordiamo le parole del premio Nobel Stiglitz, “il primo che uscirà dall’euro subirà i danni minori”.
4)      Le soluzioni possibili sono solo due: svalutare l’Euro arrivando al pareggio con il dollaro, anche per togliersi la spina che gli americani ci hanno conficcato nel fianco. Gli USA hanno giocato sporco con l’Europa, scaricando gran parte delle loro enormi responsabilità sul vecchio continente. Ma lo possono fare perché hanno una vera banca centrale che stampa moneta e conduce le politiche monetarie che vuole. Noi abbiamo una banca centrale che stabilisce i tassi di interesse e inietta liquidità alle banche drogando il mercato. Nulla di più. La seconda soluzione è procedere alle politiche keynesiane spinte:  lo stato deve intervenire pesantemente nell’economia, come nel 1929, regolando i mercati finanziari, debellando il banditismo dei fondi hedge e delle vendite allo scoperto, fornendo il quantitative easing che occorre alle banche, dotandosi di una vera banca centrale, procedendo con massicci investimenti pubblici, per esempio nelle infrastrutture, da noi così carenti. All’occorrenza nazionalizzando tutto quello che è sull’orlo del fallimento ed evitando così di ingrossare le fila dei cosiddetti “esodati”. Un intervento dello stato che regolarizzi ed incentivi l’economia reale e ridimensioni il ruolo della finanza è quanto di più urgente si debba fare.
5)      Dal momento che l’UE non ha la minima intenzione (perché la Germania non condivide queste posizioni) di procedere in tal senso, e considerando che noi non siamo la Grecia, nel senso che il botto che farebbe l’Italia avrebbe conseguenze devastanti per il mondo intero, non abbiamo le debolezze strutturali del popolo ellenico, e non consentiremo a nessuno di strangolarci arrivando ad affamare i nostri bambini (cosa che si sta verificando letteralmente in quel disgraziato paese), questa volta le condizioni le poniamo noi. Possiamo decidere una uscita unilaterale dall’euro. Secondo i trattati non si potrebbe, ma dei trattati, visto l’uso che ne hanno fatto finora Francia e Germania, ce ne possiamo anche fregare.
6)      Se l’Italia minaccia una uscita unilaterale dall’euro si potrebbero ottenere da subito almeno due risultati: la fine dell’egemonia tedesca e la fine della politica suicida del fiscal compact. Siamo l’unico paese occidentale ad aver avuto bisogno di un governo tecnico per tirarci fuori provvisoriamente dal default, questo significa qualche cosa. Non possiamo ridare la parola ai politici, sarebbe troppo rischioso. Alle prossime elezioni, indipendentemente dall’esito che avranno, si formerà un governo di unità nazionale con a capo un altro tecnico, non Monti, che per allora sarà ormai stracotto. Questa è una guerra, e le guerre non sono delle cene di gala come diceva Mao Tse Tung, non sono dei ricevimenti eleganti, le guerre si vincono o si perdono, i conti delle vittime li faranno alla fine i capellani. Se la Germania persiste nel suo atteggiamento di lassismo nei confronti dei mercati finanziari e di politiche restrittive fatte di rigore e sacrifici, ci opporremo fino alla eventuale uscita dall’euro. A quel punto i nostri amici tedeschi è probabile che si ammorbidiscano non poco. Non conviene a nessuno, tanto meno a loro l’esplosione dell’euro. Non sarà leale, ma è in gioco la sorte del nostro paese, delle nostre famiglie, dei pensionati, dei giovani, dobbiamo capire che continuare su questa strada, quella della BCE che è una succursale della Bundesbank, non farà che accrescere il nostro debito, acuire la nostra recessione trasformandola in depressione, ci farà scivolare lentamente sulla via della Grecia. Questo non lo permetteremo mai, a costo di sospendere la nostra già malata democrazia. Eugenio Benetazzo invoca un nuovo Lorenzo il Magnifico, non so se saremo capaci di tanto, quello che so è che i partiti devono farsi da parte, e che dobbiamo cominciare a giocare questa guerra sul serio, contando sulle nostre sole forze, e portandola a termine con cieca convinzione.
Aspettiamo questi undici mesi che ci separano dalle elezioni. Monti continuerà a vivacchiare, varando una riforma del mercato del lavoro che sarà una minestra riscaldata fatta di veti incrociati, cui bisognerà mettere mano nuovamente. Tenterà poi di privatizzare qualcosa, e infine ci regalerà la legnata di una seconda manovra finanziaria. Dopo di che è meglio che se ne torni alla Bocconi. Chi verrà dopo di lui, più che assomigliare a Lorenzo il Magnifico, mi perdoni Benetazzo, dovrà assomigliare a Giovanni dalle Bande Nere.