lunedì 21 marzo 2016

LA STRAORDINARIA TESTIMONIANZA DI UN SEDICENNE DALLA SBALORDITIVA MATURITA’



Max Edwards ha 16 anni. Cinque mesi fa gli è stato diagnosticato un tumore terminale. Non sa quanto tempo gli resta, sa solo che la morte è vicina. Nel suo blog The Anonymous Revolutionary, Max - che si definisce un Marxista - riflette (anche) sul significato della morte. Invece di fare della sua malattia un dramma, Max ha deciso di affrontarla come un fatto della realtà. Ha cambiato la sua percezione del tempo, sì, ma non la sua indole e la sua consapevolezza di essere "un puntino su questo pianeta". Il Guardian ha ripreso alcuni passaggi delle sue riflessioni, che vi riportiamo qui come uno straordinario esempio della maturità di questo adolescente.
“Cinque mesi fa mi hanno diagnosticato un cancro terminale all’età di 16 anni […]. Penso che sia sorprendentemente facile adattarsi a questo tipo di notizie. Dopo tutto, anche se non sto negando il suo significato personale, questa circostanza non sta davvero cambiando nulla di importante.
In passato ho immaginato una malattia terminale come il periodo breve e deprimente prima della morte prematura di una persona, ma in qualche modo non mi sembra così drammatico o sconvolgente. Non mi sento come se la mia vita normale fosse finita, o la mia percezione di essa fosse cambiata radicalmente […].
Sentirsi dire che stai per morire è uno shock, ma l’ho superato in una settimana. Quanto al dare la notizia a paranti e amici, la congettura da parte mia di provare a valutare la loro fragilità emotiva, e la loro congettura nel cercare di valutare la mia, e il pericolo di sottofondo – forse avvertito da entrambe le parti – che il tuo partner nella conversazione possa scoppiare in lacrime, hanno reso l’esperienza non tanto triste quanto piuttosto imbarazzante.
Con questo non voglio dire che per me non siano stati mesi intensi, ma non posso affermare che questa esperienza mi abbia davvero cambiato come persona […].
Morire di cancro, nella mia esperienza, è stata una sequenza di visite in ospedale, molte pillole, uno o due momenti di brutte notizie. Ma, dopo questo, c’è un inevitabile ritorno al modo in cui vivevi prima. Ho realizzato abbastanza presto che non c’è differenza tra morire tra dieci anni o due mesi; continui ad alzarti, a farti la doccia e a bere una tazza di tè.
Ok, ci sono degli inconvenienti – nel mio caso, soprattutto la mancanza di movimento. Dopo l’operazione alla mia colonna vertebrale, la mia mano dominante era quasi completamente paralizzata, il movimento era compromesso nell’altra mano e riuscivo a malapena a muovere le gambe; quindi non potevo scrivere, camminare o giocare con la chitarra e il clarinetto […].
Malgrado tutto, ho scoperto che questi problemi hanno iniziato a sistemarsi da soli dopo un po’. Per esempio, all’inizio in ospedale stavo su una barella. Quando la mia mobilità è migliorata, ho passato più tempo sulla sedia a rotelle, cosa che almeno mi ha dato il lusso di vedere dove stavo andato. Attualmente lavoro con un bastone, che certo risolve molte difficoltà, e ora posso mangiare al ristorante senza dovermi sedere a mezzo miglio dal tavolo perché la sedia a rotelle non c’entra.

Dove non ci sono stati miglioramenti significativi, come per la mia mano destra, ho cercato di colmare il problema. Incapace di suonare qualsiasi strumento che richieda due mani, ho imparato a suonare l’armonica (che ne richiede solo una – ameno così la suono io); mentre pratico la scrittura con la mano sinistra, digito sullo schermo di un cellulare: è così che ho continuato a scrivere settimanalmente il mio blog e un libro che ho pubblicato di recente. Oltre a questo, ho continuato a scrivere canzoni e musica componendo sul computer. Penso di poter essere quanto meno grato di vivere in un’epoca in cui la tecnologia rende possibile tutto ciò.
La religione è comparsa in molte discussioni dal giorno della diagnosi. Mi è stato detto che molte persone stanno pregando per me e ho pregato a mia volta, anche se non ho mai pensato che questo avrebbe fatto la differenza (l’ho fatto solo nell’eventualità che qualcosa di positivo potesse accadere – cosa ho da perdere?). Non credo in Dio, non ci credevo prima della diagnosi e non ci credo oggi […].
Non sento di aver bisogno di conforto […]. La soddisfazione della routine quotidiana è sufficiente nella strada del conforto.
Una cosa che ho iniziato a fare è misurare il tempo in pezzi distinti. Di norma, avrei permesso ai giorni di confondersi nelle settimane, le settimane nei mesi e i mesi negli anni. Dopo la mia operazione, invece, mi sono trovato a focalizzarmi su certi eventi. Una vacanza, per esempio, o una gita fuori porta, o una festa. Forse la mia percezione del tempo è cambiata […].

In termini di dove voglio essere, le mie speranze principali per il futuro sono collegate all’aspettativa di vita. Questa è ancora una cosa che mi infastidisce: ho più o meno fatto pace con l’idea della morte, ma la questione di quando sarà è ancora un pensiero che mi intimorisce. La crescita (pressoché) inevitabile del mio tumore significa che probabilmente arriverà presto, ma non so ancora esattamente quando, e non sono sicuro di volerlo sapere […].
Sono certo che l’aspettativa della morte sia peggio della morte stessa. È vero, dicono che la morte sia la singola peggiore cosa che ti possa capitare e, visto che non posso indurmi a credere che ci sia un’altra vita dopo la morte, immagino che porti solo a uno spazio vuoto, ma ho trovato dei modi per accettare questa idea. Primo: guardo alla mia vita, che credo sia stata un modesto successo, e mi ricordo che non avrebbe potuto svolgersi in nessun altro modo. L’unico modo di avere il mio unico set di esperienze è stato vivere la mia vita così com’è, e questo significa anche morire quando morirò. Se anche mi sbagliassi, e se ci dovesse essere più infelicità di quella che desidero ricordare (rendendo la mia vita un “insuccesso”), allora la morte – l’assenza di dolore o piacere – dovrebbe essere vista logicamente come un miglioramento.
Poi ricordo a me stesso che l’esperienza della morte non appartiene solo a me. Che accada a 16 o a 95 anni, sperimentare la fine di tutto è lo stesso processo – è solo che io e le persone che mi stanno vicino siamo costretti ad affrontare questo fatto prematuramente.
Infine, sento che questo mi ha aiutato a elaborare la questione in maniera disinteressata. Alcune persone possono trovare conforto nel sapere di essere amati e nel fatto che non saranno dimenticati. Posso capirlo, ma trovo consolatorio anche il punto di vista opposto: smettere di dimorare nella sofferenza personale e andare avanti come prima […]. Per me, lo stoicismo è più efficace del lutto: un semplice confronto con la realtà mi aiuta a mettere a posto la prospettiva.
Mi aiuta a ricordare che, anche se sto morendo, non tutto riguarda me. Alla fine della fiera sono uno su sette miliardi, un numero che – come il mio cancro –continuerà a screscere e moltiplicarsi nei prossimi mesi e anni. Anche se la mia vita può essere tutto ciò che conosco, non sono più di un puntino su questo pianeta. Se pensi alle decine di persone che conosco, e ai miliardi che non conosco, alle migliaia di miglia che ci separano e anche all’incessante fiume temporale in cui tutti fluttuiamo nella nostra finitezza, puoi arrivare alla conclusione inevitabile e stranamente confortante che tutti moriremo: io, tu e tutti gli altri. Non bisogna farne un dramma.