lunedì 18 gennaio 2016

QUO VADO E STAR WARS HANNO QUALCOSA IN COMUNE: L’ASSENZA DI ORIGINALITA’

Se di questi tempi un tipo come Donald Trump può essere preso sul serio quale candidato alla presidenza degli Stati Uniti, solo perché si è fatto una barcata di soldi (e non si sa bene in quale modo); orbene, sulla base dello stesso criterio si può appuntare all’esile filmetto Quo Vado il merito di aver rilanciato la sonnacchiosa produzione cinematografica italiana per il grande pubblico (con tanto di encomio da parte del ministro della cultura Dario Franceschini). Un banale remake fracassone della quarantennale serie di Guerre Stellari si trasforma nell’intrigante operazione, carica di significati e altrettante implicazioni psicologiche, su cui buona parte della critica ha discettato con un certa quale dose di spudoratezza.

Gli incassi quantitativi come metro di validazione qualitativa, che prevale su ogni altra considerazione, al tempo – appunto – in cui la pecunia ascende a criterio esclusivo dell’apprezzabilità e conseguente successo? Bah.

Resta comunque il fatto che questi prodottini di massa sono la palese conferma che – per quanto concerne il genere blockbuster – la Settima Musa mimetizza le proprie magagne soltanto grazie alla contestuale infantilizzazione delle moltitudini di fruitori, regrediti all’età puberale interiorizzando un’estetica da videogiochi e una comicità fescennina, attualizzata nei format scurrili del cinepanettone.

Difatti, qui ormai il grande assente è la sceneggiatura.

Il settimo episodio di Star Wars è un clamoroso riciclo di fondi di magazzino; specie dell’episodio IV (Una nuova speranza), cronologicamente il primo ed il più fresco della serie: se allora c’era la Morte Nera che poteva distruggere un intero pianeta, adesso ce n’è una molto più grossa ma egualmente letale; la salvezza della Resistenza dipende sempre dalla mira infallibile (guidata dalla Forza) di un pilota che corre sul suo velivolo lungo un’infima strettoia, per centrare il bersaglio infinitesimale con un unico colpo ben assestato. Oltre a ciò, un continuo correre a perdifiato e a casaccio allo scopo palese di riempire i vuoti dello script.

Le folle che accorrono alla proiezione dell’opera ultima di Checco Zalone assistono, probabilmente a propria insaputa, a un’altro rammendo di scampoli filmici e sketch da cabaret televisivo tipo Drive In, ravvivato dall’ambientazione in paesaggi esotici (il Polo Nord, l’Africa sub-sahariana) secondo l’insegnamento intrinsecamente ruffiano di Alberto Sordi, quando la sua vena iniziava a esaurirsi (da Fumo di Londra a Sono un fenomeno paranormale, a Tassista a New York). Del resto vale per Luca Pasquale Medici, in arte Checco Zalone, lo stesso dubbio che gravava sul “grande” Sordi “borghese piccolo, piccolo”: ma ci fai o ci sei?

Sordi rappresentava il peggio del carattere nazionale con un’immedesimazione scenica così marcata da lasciare intendere credibilmente trattarsi di identificazione esistenziale. In Medici-Zalone, la caricatura del proprio personaggio spinta oltre le soglie del bieco e dell’imbarazzante – almeno secondo qualcuno – ne perseguirebbe l’irridente stroncatura critica; ma così sottotraccia e vaga da risultare oltremodo ambigua. Da potere anche rivelarsi il contrario: l’effettiva condivisione dei disvalori esageratamente grotteschi ostentati dal personaggio. Una sorta di accreditamento catartico mediante immersione nel canagliesco più spudorato.

Comunque, questo deficit di strutturazione narrativa, spia di un preoccupante corto circuito di creatività, si traduce in una caratteristica che – nel caso in questione – accomuna generi pure tanto diversi tra loro come un fantasy e una commedia all’italiana di ultima generazione: l’incorporazione di stereotipi in quantità industriale, seppure a criteri rispettivamente invertiti.

La presa in carico della serie creata da Gorge Lucas da parte di una cattedrale del buonismo quale la Disney, ha comportato overdosi di politicamente corretto; sparse a piene mani su tutto Il risveglio della Forza, a partire dal casting: la protagonista Rey è di genere femminile, seppure tendente al fallico, il suo partner Finn di colore assicura adeguato pluralismo multiculturale, probabilmente nei prossimi episodi si scoprirà che il robottino sferico, custode dell’ennesima trasmissione segreta, è gay; intanto lo scellerato Kylo Ren, apprendista del Lato Oscuro della Forza, mostra evidenti tratti somatici mediorientali.

Al contrario la comicità zaloniana pratica alla grande la retorica della scorrettezza politica, tanto che, al 95 per cento della durata, il film è il delirio ideologico della neoborghesia cafona in una versione tamarra: machismo omofobo, mentalità da free rider, irrisione dei valori pubblici, possessività alla Mastro don Gesualdo. Il tutto presentato in un tale aura di simpatia da renderlo apprezzabile per un pubblico già predisposto in quel senso. Quanto si diceva accennando all’ambiguità del messaggio.

Poi, in dirittura finale, il protagonista si emancipa dal fancazzismo/menefreghismo per amore di una bella ambientalista/animalista (ennesimo stereotipo alternativo) che lo ha reso padre. Ma la conversione potrebbe rivelarsi di breve durata, stante la sostanziale superficialità e vaghezza di carattere dell’apparente converso.

Fine della magia

Faranno pure record di incassi, ma queste pellicole non apportano proprio un bel niente ai nostri immaginari. Anzi, producono esiti contrari a quanto ci si aspetterebbe: quella avventurosa finisce per annoiare, quella con pretese divertenti non strappa risate. Nonostante un successo fortemente legato alla potenza del marketing messo in campo, spettacoli privi di fascino. Come sprovvisti della capacità di “riempire la scena” appaiono i diversi attori principali che dovrebbero catalizzare carismaticità.

Certo, rispetto alla trilogia degli anni Settanta la magia era svanita già nel prequel ripresentato alla fine degli anni Novanta; a partire dall’impostazione ipertecnologica che smarriva nei suoi freddi perfezionismi alcune accattivanti ingenuità da fumetto anni Trenta (i fanciulleschi eroi dei comic Flash Gordon, Brick Bradford o Buck Rogers sono chiaramente il primo riferimento iconografico della serie cinematografica), tipo l’orchestrina di peluche nel bar malfamato dell’angiporto di Tatooine. Ma anche per la costante perdita di fascino nei successivi cambi degli interpreti: la straordinaria presenza scenica di Alec Guinness nella parte di Obi-Wan Kenobi vecchio non si riverbera minimamente sull’insipida e legnosa performance di Ewan McGregor nei panni del giovane maestro Jedi. Il trentenne Harrison Ford – Ian Solo è una seducente e scattante canaglia, che si è trasformata a settant’anni in un ansimante bisbetico che sembra continuamente chiedersi “che ci sto a fare?”. La nuova gestione disneyana della saga ha persino vanificato le potenzialità insite nel venerando fascino bergmaniano di Max Von Sydow (Lor San Tekka), riducendone la presenza a una manciata di minuti. La principessa Leila di Carrie Fischer era fuori parte all’inizio e ha continuato a esserlo anche alla fine. A prescindere dalle impietose battute che ora le sono state indirizzate sui social, riguardo alle crudeltà del tempo nei suoi confronti.

In sostanza, con la magia si è smarrita anche la favola. Che pure viene ribadita nell’incipit di ogni puntata: A long time ago, in a galaxy far, far away. Il vero punto di forza della serie, che è andata perdendo il mood costitutivo mentre incrementava spettatori e acquirenti del merchandise.

Simmetricamente, nonostante l’imprevisto, straordinario, successo di pubblico, anche per Zalone vale lo stesso discorso sulla mancanza di effettivo appeal scenico. Specie se comparato con alcune produzioni/interpretazioni nella stagione di massima fioritura della commedia all’italiana.

Visto che il tema in oggetto è “l’italica cialtronaggine”, il riferimento d’obbligo è quel gioiello cinematografico che fu Il Sorpasso del 1962, con Dino Risi alla regia e l’interpretazione magistrale di un Vittorio Gassman al meglio della sua verve straripante da mattatore, affiancato da un tenero Jean-Louis Trintignant.

Ma quello era un prodotto di altissimo livello, sia nella costruzione metaforica del messaggio di costume, sia nella caratterizzazione dei personaggi. Un grande affresco dell’Italia che nel pieno del Miracolo Economico inizia la sua discesa involutiva nella canaglieria da benessere non metabolizzato: di cui il Bruno Cortona – Gassman è la personificazione perfetta nel suo incosciente vitalismo dissipatorio.

L’impiegato imbullonato al posto fisso di Zalone è soltanto una macchietta che non diventa specchio della devastazione civica nel ventennio di Seconda Repubblica.

Il fatto che l’ultimo Star Wars e Quo Vado piacciano così tanto dimostra che una quota consistente del pubblico è diventato così di bocca buona da apprezzare prodotti palesemente liofilizzati. I cui limiti risultano particolarmente evidenti se messi a confronto con opere dello stesso genere ma di ben altro spessore.

Difficile capire come ricreare un contesto che richieda e premi qualcosa di più meditato e impegnativo delle attuali bambinate di successo.
Pierfranco Pellizzetti per Micromega