lunedì 11 gennaio 2016

E’ LA PAURA DEL RAZZISMO CHE CI PARALIZZA E RENDE VULNERABILI



Prima del patatrac del capodanno di Colonia e delle connivenze fra polizia e media tedeschi per occultare la realtà di una colossale e traumatica gang bang in cui tutti si sono preoccupati di non urtare le sensibilità degli immigrati violenti e nessuno, come ha sottolineato anche la filosofa e femminista francese Elisabeth Badinter sul Corriere della Sera, ha gridato in difesa delle donne molestate e violentate, qualcuno ricorderà il caso della città inglese di Rotherham, dove le autorità coprirono per 16 lunghi anni l’infinita catena di stupri compiuti su minori in condizioni economiche e psicologiche disagiate in quanto perpetrate da un gruppo di pachistani, per non essere accusati di razzismo.
ADESSO BISOGNA DIRE BASTA. Nel 2014 si calcolava per difetto che le vittime di questo agghiacciante abuso, compiuto nel nome della correttezza politica, fossero state 1.400: 1.400 bambini, in alcuni casi 11enni, stuprati in gruppo e avviati alla prostituzione mentre chi avrebbe dovuto difenderli voltava la testa dall’altra parte per non urtare la sensibilità della comunità islamica. E’ giunto il momento di dire basta. Ma, da vittima a mia volta di questa vischiosa e ipocrita melassa che ci impedisce di ergerci a difesa dei nostri valori, e di imporli a chi viene a bussare alla nostra porta chiedendo asilo, scriverò quanto segue di getto, senza mai rileggerlo, quindi chiuderò il file e lo manderò alla redazione di Lettera43 prima di avere la tentazione di riaprirlo.
CONTINUIAMO AD AUTOCENSURARCI. So già che finirei per autocensurarmi come facciamo tutti ormai da molti anni a questa parte nel mondo occidentale. Noi, tutti in vario grado timorosi di offendere etnie, credo, preferenze sessuali diverse dalle nostre (per anni ho guidato redazioni di soli omosessuali, so di cosa parlo).
Io stessa, di famiglia per metà ebrea, prima di raccontare una storiella ebraica presento automaticamente le mie credenziali. Mio padre, ebreo di lunghissima ascendenza, non si sarebbe mai sognato di farlo: parlava di chi credeva come gli pareva meglio, usando come unica discriminante nel suo giudizio l’intelligenza, la cultura e la buona educazione. Scampato ai rastrellamenti solo perché si trovava al fronte in Nordafrica come ufficiale medico e lì non andavano tanto per il sottile sulle origini perché di medici bravi c’era molto bisogno, sugli ebrei mio padre raccontava storielle davvero micidiali.
Trattava tutti, le sue molteplici famiglie, i suoi pazienti, i suoi colleghi, gli amici che sfidava a lunghe partite di scacchi, con lo stesso rigore, la stessa libertà di spirito e lo stesso affetto brusco: una volta minacciò neanche troppo per scherzo il marito di una partoriente che non sarebbe stato presente in sala se si fossero ostinati a voler chiamare un eventuale figlio maschio “Crocifisso” perché, disse, affibbiandogli un nome simile gli avrebbero rovinato l’esistenza. La coppia tornò sui propri passi, scegliendo un nome meno invalidante dal punto di vista sociale, e se ben ricordo si presentarono tutti e tre al suo, affollatissimo, funerale.
UNA DEFINIZIONE NON CAMBIA UNA CONDIZIONE. Adesso mio padre sarebbe stato denunciato, e sarebbe stato coperto di contumelie sui media tradizionali e anche sui social. Quando morì, in giro non si parlava già più di spazzini ma di “operatori ecologici”, e i ciechi erano “non vedenti” (peraltro, una definizione più corretta rispetto a quella di “cieco” che etimologicamente definisce l’orbo. Addirittura, non esiste una radice linguistica unica che richiami la cecità, per il semplice fatto che alle origini della civiltà i bambini ciechi non avevano troppe chance di sopravvivenza). Mio padre considerava questi maquillage lessicali totali idiozie, ben sapendo che una definizione non cambia una condizione né, come logico e pure peggio, il modo in cui la si valuta o la si interpreta. Per dirla tutta, si può definire un uomo di colore “negro” e portargli il massimo rispetto, oppure arzigololare attorno alla sua etnia per ore continuando a disprezzarlo, anzi disprezzandolo proprio in virtù dell’arzigogolo a cui ci costringe.
NON DOBBIAMO CATEGORIZZARE. Con gli/noi ebrei, potete facilmente immaginare che cosa succeda: nel migliore dei casi, cioè quando dalla vita abbiamo avuto qualche successo, apparteniamo certamente alla famosa “lobby ebraica” (ma esiste anche la lobby gay, che mi pare risponda alle stesse fantasiose supposizioni). In caso contrario, o in aggiunta, siamo “sporchi ebrei”. Quando vogliono farci un complimento, dicono che siamo “tutti intelligenti”: ma non è vero. E’ pura ipocrisia, come l’idea che gli omosessuali siano tutti sensibili. Non è vero. Esistono ebrei ottusi e gay cuordipietra.
Categorizzare è ipocrita, così come è ipocrita, e molto pericoloso, sottovalutare le difficoltà dell’integrazione fra culture lontane che, in particolare, oppongono una morale laica, conquistata in lotte millenarie, a una guida teologica dogmatica e dunque mai evoluta. “L’integrazione è possibile, ma solo se gli immigrati adottano valori che sono anche i nostri, e che noi dobbiamo difendere”, dice ancora Badinter. Con gli immigrati siamo attenti, premurosi, al punto di censurarci. Di occultare la realtà per non alimentare razzismo e tensioni. Ma in nome di questa spinta, moralmente elevata, chi non condivide, o non conosce la nostra morale, capisce di avere campo libero. E questo non possiamo tollerarlo. 

Fabiana Giacomotti