lunedì 11 febbraio 2013

LA BOTTIGLIA AZZURRA



Ci trovavamo nel centro del deserto di Rub Al- Khali, poco lontano dalla località di As Slayyil.   Gli scavi erano cominciati dieci anni prima, io mi ero aggregato da poco più di due mesi, come semplice osservatore, grazie all’interessamento del Consolato italiano del luogo. Un mio compagno di scuola si era premurato di farmi avere il visto e il permesso, dopo un breve corso di preparazione, a partecipare alla prosecuzione degli scavi, continuamente interrotti dal ritrovamento di reperti, la loro classificazione sommaria e messa in sicurezza. Mancava ormai solo un mese alla fine della mia permanenza a As Slayyil e, a dire la verità, cominciavo a disperare di trovare quello che ero venuto fino a quel luogo a cercare. Una leggenda antichissima, risalente al III secolo prima di Cristo, parlava di una favolosa bottiglia, o un vaso, o una coppa, contenente un liquido miracoloso, magico, che aveva il potere di rendere conoscibile la realtà, la nostra provenienza, il nostro destino ultimo, il senso della vita. Non sapevamo altro di preciso, neppure sul contenitore di tale liquido, le popolazioni di quei luoghi conoscevano, sebbene antichissime, l’arte della lavorazione del vetro, ma non potevamo sapere se veramente si trattasse di una bottiglia, o di altro recipiente. D’altra parte si trattava solo di una leggenda, sebbene trascritta in  vari reperti rinvenuti molti anni addietro e concordi nell’individuare questa località come quella destinata a custodire la bottiglia e il suo prezioso contenuto. Non avevamo neppure idea se il liquido fosse veramente tale e si fosse conservato per così tanti secoli. Avevo letto le diverse testimonianze su questa leggenda e mi colpì la sostanziale coincidenza delle fonti circa le virtù del liquido: chi lo avesse rinvenuto non avrebbe conquistato la felicità, ovviamente, anzi, la rivelazione in quanto tale poteva benissimo essere deludente, incompleta, addirittura incomprensibile o non esistere affatto. Come un liquido poi avesse la facoltà di trasmettere una così alta forma di conoscenza, rimaneva un mistero. Tutto poteva essere vano, insomma, gli scavi proseguivano per portare alla luce la straordinaria città di pietra, ma gli archeologi stessi nutrivano un certo scetticismo sull’esistenza della bottiglia e soprattutto sulla possibilità che si trattasse di una fonte di rivelazione. Cionondimeno, considerata la mia condizione in Italia, privo di congiunti e di amici, liberato da un lavoro che mi opprimeva da tutta una vita, ritenni opportuno, grazie all’interessamento del mio amico, partire lo stesso, non lasciavo nessuno, non abbandonavo niente che potesse essere degno di nota, la mia vita, in patria, era comunque finita. Concluso un lavoro che detestavo da sempre, chiusa con grande dolore una vicenda sentimentale che durava da molti anni, i pochi amici compresi dalle loro necessità quotidiane, ingabbiati in orari, scadenze, percorsi, gesti sempre uguali, non avevo più nulla che mi tenesse vincolato ad una  realtà triste, gretta e meschina,  ad un mondo povero, egoista e miserabile, ancorato ai soli beni materiali. Nonostante il mio permesso avesse la durata di soli tre mesi, da diversi giorni meditavo di non tornare comunque in patria, anche se non sapevo esattamente dove sarei andato a parare. 

La mattina ci si alzava prestissimo per sfruttare al meglio le ore meno calde della giornata, uscivo dalla tenda nella luce ancora tenue del deserto, la sabbia volteggiava in mulinelli ed entrava in ogni cosa: era una sabbia finissima, di un rosso mattone, faceva parte della nostra vita, era nei nostri abiti, nei nostri cibi, non entrava solo negli occhiali di protezione, per il resto era ovunque. A quell’ora le dune apparivano di un cremisi intenso, con la luce radente del sole, gli scavi, poco lontani dalle tende, si stagliavano spettrali contro l’orizzonte di un cielo ancora pallido che evaporava in una caligine che uniformava tutti i colori in un grigio azzurro monotono e opaco. Col passare delle ore e l’accrescersi della temperatura, il cielo si faceva più limpido, e gli oggetti assumevano colori più naturali, anche se il rosso delle sabbie e della città morta restava sempre uguale, in qualsiasi ora del giorno. La mia camicia kaki cominciava ad intridersi di sudore, avrei dovuto sopportarla per tutto il resto della giornata, il caldo opprimente non consentiva pause di refrigerio. Nell’ora più calda, si riposava all’ombra di un torrione, consumando un breve pasto e facendo alcune considerazioni sui risultati della giornata ancora in corso. Su tutto, però, aleggiava una atmosfera pesante di scetticismo, una smemorata apatia, un doloroso fatalismo che conduceva gli animi degli archeologi fino alle soglie dell’infelicità. Come se un senso di vanità e di inutilità si fosse impadronito dalla spedizione, aiutato certo dal clima e dalla monotonia rovente del paesaggio, dalle notti fredde e senza luna, da quel sole sempre uguale, dai tramonti brevissimi che preludevano ad antiche sere tutte uguali, dai contorni sbiaditi, dall’indaco pallido che uniformava tutto, dai nostri volti agli oggetti che utilizzavamo. Senza dirlo apertamente, tutti mi consideravano un personaggio stravagante ed annoiato dalla civiltà, venuto sin lì ad inseguire i fantasmi della sua mente, senza una meta precisa, senza un obiettivo ben definito, insomma una specie di pazzo stravagante cui non era opportuno dare troppa confidenza. Nessuno di loro prendeva sul serio la leggenda della bottiglia. E questo rendeva il mio personaggio ancor più incomprensibile. Parlavano poco, ma mi sorvegliavano con attenzione, in modo che non mi potessi allontanare troppo o che non toccassi, con le mie mani inesperte, dei reperti che andavano trattati con le dovute precauzioni prima di essere catalogati.

Un pomeriggio, eravamo entrati nell’ultima quindicina di giorni della mia permanenza, mi trovavo con Safel, un indigeno che spesso mi accompagnava nelle mie girovagazioni, e mi dava una mano nelle fotografie, o a superare i passaggi più impervi (ma io ero sicuro che il capo spedizione me lo aveva messo alle costole per meglio controllare il mio operato), quando, era pomeriggio inoltrato e tra non molto il crepuscolo  sarebbe sbrigativamente calato su di noi, ci trovammo davanti alla porta di una costruzione che era stata da poco scoperta e superficialmente sgomberata da sabbia e detriti. Gli archeologi, ad una prima, superficiale,  ricognizione, non avevano trovato nulla di particolarmente interessante. Ne avevamo brevemente parlato la sera prima, al bivacco, chiesi se si fossero salvate suppellettili o oggetti d’uso quotidiano in quella costruzione. Mi era stato risposto che nulla era emerso, se non le nude pareti di un paio di ambienti, che davano in un budello senza apparente vie d’uscita. In breve, quella parte degli scavi era stata temporaneamente abbandonata perché non degna di particolari attenzioni. Proprio per questo motivo, decisi con Safel di avventurarmi  nelle due stanze ormai sgombre. In effetti, le pareti erano nude, le due stanze comunicavano senza uno scalino, e solo in un angolo della seconda stanza era visibile una piccola apertura a volta incrociata. La luce radente del tramonto ormai vicino rendeva il rosso della sabbia ancora più acceso, nella lama luminosa che filtrava dall’entrata il pulviscolo sembrava un magma vermiglio. Safel mi consigliò di non proseguire, che l’ora cominciava ad essere tarda, e che sarebbe stato meglio rientrare. Non gli badai, e con la  torcia accesa mi addentrai con fatica nel cunicolo che si apriva davanti a me. Poteva a malapena entrarvi una persona sola, e anch’esso sembrava privo di vie d’uscita. Ad un certo punto, roteando la torcia per esplorare l’ambiente, la mi attenzione cadde su quella che sembrava una piccola nicchia, la cui apertura era mimetizzata e confusa dalla coltre di polvere e sabbia che la circondava. Con il pennello e la spatola che portavo clandestinamente con me, cercai di far emergere una eventuale fessura. Fuori Safel, che sapeva che mi portavo appresso attrezzi che avrei dovuto lasciare in tenda, aspettava spazientito. Ad un certo punto, la lama della spatola incontrò l’ostacolo costituito dalla bordatura della nicchia: scavai con maggiore forza, e dopo qualche minuto, aiutandomi con il pennello, potei distinguere una cavità a protezione della nicchia scavata nel muro. Feci leva con la spatola e lo sportello, privo di cardini, mi cadde addosso all’improvviso, sollevando una nuvola di polvere giallastra. Safel mi chiese cosa fosse accaduto e mi pregò di rientrare, il sole era quasi al tramonto e tra brevissimo tempo sarebbe scomparso. Mi rialzai a fatica e con la mano tremante frugai dentro la nicchia. Era proco profonda, arrivava al massimo al mio avambraccio, la luce della torcia non riusciva a  spingersi oltre le pareti quadrate, ma il mio tatto percepì un’altra piccola apertura nell’angolo destro. La mia mano incontrò un oggetto, liscio e levigatissimo, poteva essere un vaso. Lo sollevai senza fatica e con mille precauzioni, fino a cavarlo fuori dalla nicchia dove era sepolto. Era una bottiglia. Una bottiglia azzurra. L’ultima luce del crepuscolo mi permise di distinguere qualcosa dentro la bottiglia, aiutandomi con la torcia elettrica vidi che si trattava di un liquido incolore, leggermente ambrato, ma la luce era troppo poca per distinguerne le sfumature. La bottiglia era sigillata in modo primitivo, con una capsula composta di una lega metallica a me ignota, vidi solo con certezza che era piena per metà. Safel, non appena vide la bottiglia, con un altissimo grido, se la diede a gambe, ed io rimasi solo, in mezzo alla seconda stanza nel buio più completo. Non sapevo cosa pensare, non sapevo neppure cosa fare. Avrei dovuto rientrare subito nell’accampamento ed avvisare gli archeologi della mia scoperta, era ormai buio inoltrato e tra poco sarebbero partite, da parte dei miei compagni, le mie ricerche, su precise indicazioni di Safel. Avevo poco tempo per decidere che fare. D’improvviso, come colto da una ispirazione, feci saltare con i guanti il tappo che sigillava la bottiglia, e ne annusai il contenuto. Non sentii nulla di particolare. Poi, voltandomi lentamente verso l’apertura della stanza, con un gesto calmo e risoluto, portai la bottiglia alle labbra e bevvi il contenuto fino all’ultima goccia. Sentii il liquido gorgogliare nella mia gola e quello fu l’ultimo ricordo che conservai. Un attimo dopo, il mio corpo era svanito, la bottiglia azzurra giaceva per terra, i miei vestiti erano solo un mucchio di panni impolverati. Ero la stanza che mi ospitava, la costruzione che ci sovrastava, le tende che poco lontano ospitavano gli archeologi. Ma ero anche nelle loro menti, nel respiro che li alimentava, il fuoco che avevano appena acceso, ero le dune modellate da vento, il vento stesso che spirava da un oceano lontano, quello stesso vento che soffiava dall’eternità e all’eternità sarebbe un giorno tornato.
Liberamente ispirato al racconto "the blue bottle" di Ray Bradbury