Ci trovavamo nel centro del
deserto di Rub Al- Khali, poco lontano dalla località di As Slayyil. Gli scavi erano cominciati dieci anni prima,
io mi ero aggregato da poco più di due mesi, come semplice osservatore, grazie
all’interessamento del Consolato italiano del luogo. Un mio compagno di scuola si era premurato di farmi avere il visto e il permesso, dopo un
breve corso di preparazione, a partecipare alla prosecuzione degli scavi,
continuamente interrotti dal ritrovamento di reperti, la loro classificazione sommaria e messa in sicurezza. Mancava ormai solo un mese alla fine della mia
permanenza a As Slayyil e, a dire la verità, cominciavo a disperare di trovare
quello che ero venuto fino a quel luogo a cercare. Una leggenda antichissima,
risalente al III secolo prima di Cristo, parlava di una favolosa bottiglia, o
un vaso, o una coppa, contenente un liquido miracoloso, magico, che aveva il
potere di rendere conoscibile la realtà, la nostra provenienza, il nostro
destino ultimo, il senso della vita. Non sapevamo altro di preciso, neppure sul
contenitore di tale liquido, le popolazioni di quei luoghi conoscevano, sebbene
antichissime, l’arte della lavorazione del vetro, ma non potevamo sapere se
veramente si trattasse di una bottiglia, o di altro recipiente. D’altra parte
si trattava solo di una leggenda, sebbene trascritta in vari reperti rinvenuti molti anni addietro e
concordi nell’individuare questa località come quella destinata a custodire la
bottiglia e il suo prezioso contenuto. Non avevamo neppure idea se il liquido
fosse veramente tale e si fosse conservato per così tanti secoli. Avevo letto
le diverse testimonianze su questa leggenda e mi colpì la sostanziale
coincidenza delle fonti circa le virtù del liquido: chi lo avesse rinvenuto non
avrebbe conquistato la felicità, ovviamente, anzi, la rivelazione in quanto
tale poteva benissimo essere deludente, incompleta, addirittura incomprensibile
o non esistere affatto. Come un liquido poi avesse la facoltà di trasmettere
una così alta forma di conoscenza, rimaneva un mistero. Tutto poteva essere
vano, insomma, gli scavi proseguivano per portare alla luce la straordinaria città
di pietra, ma gli archeologi stessi nutrivano un certo scetticismo
sull’esistenza della bottiglia e soprattutto sulla possibilità che si trattasse
di una fonte di rivelazione. Cionondimeno, considerata la mia condizione in
Italia, privo di congiunti e di amici, liberato da un lavoro che mi opprimeva
da tutta una vita, ritenni opportuno, grazie all’interessamento del mio amico,
partire lo stesso, non lasciavo nessuno, non abbandonavo niente che potesse
essere degno di nota, la mia vita, in patria, era comunque finita. Concluso un
lavoro che detestavo da sempre, chiusa con grande dolore una vicenda sentimentale
che durava da molti anni, i pochi amici compresi dalle loro necessità
quotidiane, ingabbiati in orari, scadenze, percorsi, gesti sempre uguali, non
avevo più nulla che mi tenesse vincolato ad una realtà triste, gretta e meschina, ad un mondo povero, egoista e miserabile,
ancorato ai soli beni materiali. Nonostante il mio permesso avesse la durata di
soli tre mesi, da diversi giorni meditavo di non tornare comunque in patria,
anche se non sapevo esattamente dove sarei andato a parare.
La mattina ci si alzava
prestissimo per sfruttare al meglio le ore meno calde della giornata, uscivo
dalla tenda nella luce ancora tenue del deserto, la sabbia volteggiava in
mulinelli ed entrava in ogni cosa: era una sabbia finissima, di un rosso
mattone, faceva parte della nostra vita, era nei nostri abiti, nei nostri cibi,
non entrava solo negli occhiali di protezione, per il resto era ovunque. A
quell’ora le dune apparivano di un cremisi intenso, con la luce radente del
sole, gli scavi, poco lontani dalle tende, si stagliavano spettrali contro
l’orizzonte di un cielo ancora pallido che evaporava in una caligine che
uniformava tutti i colori in un grigio azzurro monotono e opaco. Col passare
delle ore e l’accrescersi della temperatura, il cielo si faceva più limpido, e
gli oggetti assumevano colori più naturali, anche se il rosso delle sabbie e
della città morta restava sempre uguale, in qualsiasi ora del giorno. La mia
camicia kaki cominciava ad intridersi di sudore, avrei dovuto sopportarla per
tutto il resto della giornata, il caldo opprimente non consentiva pause di
refrigerio. Nell’ora più calda, si riposava all’ombra di un torrione, consumando
un breve pasto e facendo alcune considerazioni sui risultati della giornata
ancora in corso. Su tutto, però, aleggiava una atmosfera pesante di
scetticismo, una smemorata apatia, un doloroso fatalismo che conduceva gli
animi degli archeologi fino alle soglie dell’infelicità. Come se un senso di
vanità e di inutilità si fosse impadronito dalla spedizione, aiutato certo dal
clima e dalla monotonia rovente del paesaggio, dalle notti fredde e senza luna,
da quel sole sempre uguale, dai tramonti brevissimi che preludevano ad antiche
sere tutte uguali, dai contorni sbiaditi, dall’indaco pallido che uniformava tutto,
dai nostri volti agli oggetti che utilizzavamo. Senza dirlo apertamente, tutti
mi consideravano un personaggio stravagante ed annoiato dalla civiltà, venuto
sin lì ad inseguire i fantasmi della sua mente, senza una meta precisa, senza
un obiettivo ben definito, insomma una specie di pazzo stravagante cui non era
opportuno dare troppa confidenza. Nessuno di loro prendeva sul serio la
leggenda della bottiglia. E questo rendeva il mio personaggio ancor più
incomprensibile. Parlavano poco, ma mi sorvegliavano con attenzione, in modo
che non mi potessi allontanare troppo o che non toccassi, con le mie mani
inesperte, dei reperti che andavano trattati con le dovute precauzioni prima di
essere catalogati.
Un pomeriggio, eravamo entrati
nell’ultima quindicina di giorni della mia permanenza, mi trovavo con Safel, un
indigeno che spesso mi accompagnava nelle mie girovagazioni, e mi dava una mano
nelle fotografie, o a superare i passaggi più impervi (ma io ero sicuro che il
capo spedizione me lo aveva messo alle costole per meglio controllare il mio
operato), quando, era pomeriggio inoltrato e tra non molto il crepuscolo sarebbe sbrigativamente calato su di noi, ci
trovammo davanti alla porta di una costruzione che era stata da poco scoperta e
superficialmente sgomberata da sabbia e detriti. Gli archeologi, ad una prima,
superficiale, ricognizione, non avevano
trovato nulla di particolarmente interessante. Ne avevamo brevemente parlato la
sera prima, al bivacco, chiesi se si fossero salvate suppellettili o oggetti
d’uso quotidiano in quella costruzione. Mi era stato risposto che nulla era
emerso, se non le nude pareti di un paio di ambienti, che davano in un budello
senza apparente vie d’uscita. In breve, quella parte degli scavi era stata
temporaneamente abbandonata perché non degna di particolari attenzioni. Proprio
per questo motivo, decisi con Safel di avventurarmi nelle due stanze ormai sgombre. In effetti,
le pareti erano nude, le due stanze comunicavano senza uno scalino, e solo in
un angolo della seconda stanza era visibile una piccola apertura a volta
incrociata. La luce radente del tramonto ormai vicino rendeva il rosso della
sabbia ancora più acceso, nella lama luminosa che filtrava dall’entrata il
pulviscolo sembrava un magma vermiglio. Safel mi consigliò di non proseguire,
che l’ora cominciava ad essere tarda, e che sarebbe stato meglio rientrare. Non
gli badai, e con la torcia accesa mi
addentrai con fatica nel cunicolo che si apriva davanti a me. Poteva a malapena
entrarvi una persona sola, e anch’esso sembrava privo di vie d’uscita. Ad un
certo punto, roteando la torcia per esplorare l’ambiente, la mi attenzione
cadde su quella che sembrava una piccola nicchia, la cui apertura era
mimetizzata e confusa dalla coltre di polvere e sabbia che la circondava. Con
il pennello e la spatola che portavo clandestinamente con me, cercai di far
emergere una eventuale fessura. Fuori Safel, che sapeva che mi portavo appresso
attrezzi che avrei dovuto lasciare in tenda, aspettava spazientito. Ad un certo
punto, la lama della spatola incontrò l’ostacolo costituito dalla bordatura
della nicchia: scavai con maggiore forza, e dopo qualche minuto, aiutandomi con
il pennello, potei distinguere una cavità a protezione della nicchia scavata
nel muro. Feci leva con la spatola e lo sportello, privo di cardini, mi cadde
addosso all’improvviso, sollevando una nuvola di polvere giallastra. Safel mi
chiese cosa fosse accaduto e mi pregò di rientrare, il sole era quasi al
tramonto e tra brevissimo tempo sarebbe scomparso. Mi rialzai a fatica e con la
mano tremante frugai dentro la nicchia. Era proco profonda, arrivava al massimo
al mio avambraccio, la luce della torcia non riusciva a spingersi oltre le pareti quadrate, ma il mio
tatto percepì un’altra piccola apertura nell’angolo destro. La mia mano incontrò
un oggetto, liscio e levigatissimo, poteva essere un vaso. Lo sollevai senza
fatica e con mille precauzioni, fino a cavarlo fuori dalla nicchia dove era
sepolto. Era una bottiglia. Una bottiglia azzurra. L’ultima luce del crepuscolo
mi permise di distinguere qualcosa dentro la bottiglia, aiutandomi con la
torcia elettrica vidi che si trattava di un liquido incolore, leggermente
ambrato, ma la luce era troppo poca per distinguerne le sfumature. La bottiglia
era sigillata in modo primitivo, con una capsula composta di una lega metallica
a me ignota, vidi solo con certezza che era piena per metà. Safel, non appena
vide la bottiglia, con un altissimo grido, se la diede a gambe, ed io rimasi
solo, in mezzo alla seconda stanza nel buio più completo. Non sapevo cosa
pensare, non sapevo neppure cosa fare. Avrei dovuto rientrare subito
nell’accampamento ed avvisare gli archeologi della mia scoperta, era ormai buio
inoltrato e tra poco sarebbero partite, da parte dei miei compagni, le mie
ricerche, su precise indicazioni di Safel. Avevo poco tempo per decidere che
fare. D’improvviso, come colto da una ispirazione, feci saltare con i guanti il
tappo che sigillava la bottiglia, e ne annusai il contenuto. Non sentii nulla
di particolare. Poi, voltandomi lentamente verso l’apertura della stanza, con
un gesto calmo e risoluto, portai la bottiglia alle labbra e bevvi il contenuto
fino all’ultima goccia. Sentii il liquido gorgogliare nella mia gola e quello
fu l’ultimo ricordo che conservai. Un attimo dopo, il mio corpo era svanito, la
bottiglia azzurra giaceva per terra, i miei vestiti erano solo un mucchio di
panni impolverati. Ero la stanza che mi ospitava, la costruzione che ci
sovrastava, le tende che poco lontano ospitavano gli archeologi. Ma ero anche
nelle loro menti, nel respiro che li alimentava, il fuoco che avevano appena
acceso, ero le dune modellate da vento, il vento stesso che spirava da un
oceano lontano, quello stesso vento che soffiava dall’eternità e all’eternità
sarebbe un giorno tornato.
Liberamente ispirato al racconto "the blue bottle" di Ray Bradbury