giovedì 16 giugno 2011

PROFONDO ROSSO

Le notizie che giungono da Atene, in questi ultimi giorni, sono a dir poco disastrose. L’ennesimo declassamento del paese, l’ultimo possibile, a questo punto, arriva da Standard & Poors con una tripla C, vale a dire default, bancarotta, crack. La Grecia è tecnicamente fallita, e ogni tentativo di salvarla risulterebbe vano. Ma, come osserva giustamente Mario Draghi, il tentativo di salvataggio del paese ellenico costituirebbe il minore dei mali. Vediamo perché. Il fallimento della Grecia comporterebbe come prima conseguenza la ristrutturazione del debito, che significa il coinvolgimento pieno e totale dei privati al fallimento statale. I titoli di stato greci non potrebbero essere rimborsati alla scadenza per assoluta mancanza di liquidità, gli stipendi statali non sarebbero più garantiti, l’uscita dall’euro sarebbe inevitabile. Ma il ritorno alla dracma significherebbe una svalutazione consistente della moneta nazionale, una inflazione esponenziale, la perdita totale del potere di acquisto dei salari. Gli speculatori internazionali interverrebbero sulla valuta greca, contribuendo ad indebolirla ancora di più. Quando le banche non sono più in grado di restituire agli investitori e ai risparmiatori i denari investiti, allora il quadro si complica, trasformando la conflittualità sociale in guerra civile. Il ritorno alla barbarie sarebbe garantito. Siamo sicuri che un quadro simile sia accettabile dentro la casa europea? E poi, di seguito, la contaminazione dei paesi a rischio, come Irlanda, Portogallo, Spagna, Belgio e Italia. Il vento della speculazione avrebbe buon gioco, e metà Europa si troverebbe,nel medio termine, nelle stesse condizioni della Grecia. Senza contare che le casse della BCE sono colme di titoli greci praticamente privi di valore, e i principali paesi europei (come Francia e Germania) sono fortemente esposti nel paese ellenico. Il quadro è completo. Ecco perché Mario Draghi, perfettamente conscio che aiutare la Grecia con il contagocce, centellinando gli aiuti in diverse tranches di svariati milioni di euro, serve solo a rimandare quello che è ormai inevitabile, è altresì convinto che, al momento,  non è possibile individuare una strategia migliore. Una doverosa precisazione, come ci fa notare il Prof. Luigi Spaventa, è dovuta all’attuale leader greco Papandreou, del Pasok, non responsabile delle malefatte del governo conservatore che lo ha preceduto, arrivato al punto di nascondere il disavanzo dei conti pubblici greci, abbassandolo di almeno due terzi. Un paese privo di struttura industriale, con una pubblica amministrazione pletorica ed assistenziale, una previdenza arrivata alla follia di mandare le persone in pensione a 53 anni, una gestione dei contributi europei quantomeno “superficiale”, per non dire di peggio. Il povero Papandreou si trova crocefisso per i madornali errori di chi lo ha preceduto, ma questo non basta ad assolvere una classe politica, strano a dirsi, più inetta e corrotta della nostra. Ma, nonostante questo, salvare Atene, oggi, significa salvare anche l’Euro, e l’intera Unione Europea. Con l’uscita della Grecia dall’eurozona, il default si allargherebbe prima ai paesi periferici, poi a quelli centrali, causando, di fatto, l’estinzione della moneta unica, e la fine dell’Unione Europea. Per noi, tornare alla lira non significherebbe, come qualcuno pensa, un passo in avanti. La conversione dall’euro alla lira non sarebbe affatto quella del 2002, 1936,27 lire per un euro, ma sarebbe almeno raddoppiata. Un caffè ci verrebbe a costare 4.000 lire. La svalutazione dei nostri risparmi potrebbe sfiorare il 50%, e la spirale inflattiva ci strangolerebbe. La nostra povera, indifesa moneta sarebbe facile preda degli speculatori, e, in breve, ci troveremmo anche noi nella condizione di non avere stipendi garantiti, e qualora lo fossero, con una perdita netta del potere di acquisto. Un paese intero che si impoverisce e si imbarbarisce. Niente welfare, niente ammortizzatori, solo miseria e conflittualità. Ecco perché se Atene piange, Roma non ride. Per questo, saggiamente, Draghi sta facendo il possibile per impedire, almeno per adesso, un default del paese greco. E intanto la BCE ci chiede di precisare meglio la strategia di rientro dei conti pubblici nel biennio 2013 e 2014, e ce la richiede semplicemente perché non esiste. La ragione fondamentale del declassamento dell’outlook di Standard & Poors nei nostri confronti, è quella dell’instabilità politica o meglio dello stallo in cui versa il nostro mondo politico. Esattamente quello che si sta verificando in questi mesi. Poi, a rincarare la dose, lo spread tra i titoli di stato italiani e i bund tedeschi è schizzato dai 170 punti di pochi giorni fa a 200 punti, altro pessimo segnale. Se qualcosa non cambia, e non cambia in fretta, rischiamo di avvitarci nella spirale nella quale si sono strangolati paesi come Irlanda e Portogallo. Data la criticità della situazione, al punto in cui siamo arrivati, un cambio della guardia potrebbe rivelarsi salutare, ed offrire ai mercati un segnale tutto sommato positivo. E’ vero che non esiste un Tremonti di sinistra, e che questo costituisce la maggiore fonte di perplessità per un gran numero di italiani che teme che la scomparsa del ministro dell’economia dalla scena politica potrebbe creare un vuoto incolmabile, ma dobbiamo ricordarci che Tremonti, per quanto si sia dimostrato un ministro decoroso, ha fallito in almeno un paio di circostanze. Intanto un peccato di omissione, nel non fare nulla e nello stare semplicemente a guardare in troppe occasioni, per paura di sbagliare, per eccesso di prudenza, d’accordo, ma non era il comportamento migliore. La seconda consiste nell’ aver fatto poco o nulla per stimolare lo sviluppo economico del nostro paese. Limitarsi a tenere a bada i conti pubblici lo fa assomigliare, più che ad un ministro delle finanze, ad un curatore fallimentare. Per questi motivi, un passaggio parlamentare che penalizzasse il Cavaliere ed aprisse una crisi di governo cui facessi seguito un governo tecnico per fare le riforme, sarebbe tutto considerato auspicabile. Il Cavaliere è troppo stanco, troppo invischiato nella parte del personaggio che lui stesso ha scelto di recitare e che ha trascinato nel ridicolo il nostro paese per seguitare a governare. Le Lega comincia a sviluppare un nervosismo che potrebbe trasformarsi in aperto contrasto, i cosiddetti “responsabili” cominciano a vacillare, indecisi nella scelta del carro sul quale salire. Vedremo cosa accadrà nella verifica del 22 giugno. Ma ricordiamoci tutti che, al punto in cui ci troviamo, una crisi di governo non sarebbe il male maggiore. La nostra economia, la nostra finanza, condizionate entrambe dalla situazione greca, da quella internazionale dei mercati e delle borse, da una politica vittima di una paralisi ormai insopportabile, non possono reggere ancora a lungo. Le agenzie di rating, che ci hanno misteriosamente graziato fino ad oggi, domani potrebbero declassarci a livello di paesi come il Portogallo. Qui bisogna agire presto, subito, non c’è più tempo. Il primo passo da fare è rispondere a quanto richiestoci dalla BCE, fornendo un piano credibile di risanamento per il bienni 2013 – 2014. Ma con i fantasmi che si aggirano per i corridoi di Palazzo Chigi, la vedo piuttosto dura. Ad oggi, il rischio maggiore che ci troviamo ad affrontare non è tanto un default dell’Italia (se l’Italia fallisse vorrebbe dire che l’Europa è già crollata), il rischio fondamentale è quello dell’estinzione dell’euro. Senza moneta unica, senza questo indispensabile scudo contro la concorrenza dei paesi emergenti, contro la speculazione degli sciacalli internazionali, contro la svalutazione e l’inflazione, il nostro paese porterebbe indietro l’orologio della storia, lo porterebbe al periodo tra le due guerre, dal 1918 al 1922, anno dell’avvento del fascismo, la nostra situazione potrebbe paragonarsi solo a quella della Repubblica di Weimar, la cui crisi politica ed economica fu di una tale gravità da spianare la strada al buio del medioevo nazista.