giovedì 23 giugno 2011

A SPASSO PER I CAMPI ELISI

In questi giorni, in un letto d’ospedale, se ne sta andando un uomo, un amico, un collega, una persona che non dimenticherò mai. La malattia mortale, la stessa che Umberto Veronesi ritiene che abbia delle possibilità di guarigione vicine al 50%, se lo sta portando via. Ed io, che cerco sempre di trovare le parole adatte, sincere, opportune, io non so che cosa dire, io non so che cosa fare. Lascia una moglie con la quale si è da sempre stabilito uno splendido affiatamento, una sintonia speciale, lascia una figlia che era la pupilla dei suoi occhi, una ragazza semplice e carina, che aveva già trovato la sua strada ed il suo avvenire. Ho il cuore gonfio di malinconia, gli occhi velati di tristezza. Ho molti ricordi che mi riconducono a lui: quante mattine presto, sul sagrato davanti al santuario, prima di cominciare la settimana, una sigaretta, poi un caffè, per contrastare il freddo ancora pungente, l’aria sottile e umida che penetrava nelle ossa, l’allegria scanzonata che si traduceva in battute sferzanti nei confronti di questo o quell’altro. Ma non c’era cattiveria, anzi. La sua bonomia, la sua indulgenza erano note a tutti, così come il suo sarcasmo, venato di nostalgia per un’età ormai passata e non vissuta sino in fondo. Quanto tempo è trascorso? Da quanti anni ci conosciamo? Venticinque anni, sono tanti, eppure, adesso, sembrano poca cosa davanti a quello che ci aspetta. E poi la noia delle riunioni, dei convegni, del lavoro quotidiano interrotto da qualche pausa trascorsa davanti al distributore di caffè… Il tempo di scambiare qualche parola, una pacca sulle spalle e poi, via, daccapo. Ma come sembra lontano quel tempo, adesso che il tuo sta per scadere. Come sembra tutto assurdo, privo di senso. Tutto il lavoro perduto, la fatica sprecata, l’andare avanti comunque, in un ambiente sempre più difficile, con un lavoro sempre meno soddisfacente, un correre verso il nulla, verso il buio della notte che ci aspetta. Un lavoro ingrato, cominciato con entusiasmo, con orgoglio, fieri di appartenere ad un ambito importante per il paese e per gli altri, soprattutto per quelli meno fortunati. E poi l’essere obbligati ad assistere alla decadenza, allo sgretolamento di un intero sistema divenuto schiavo solo dei numeri, lontano e sordo ai richiami dei bisogni, delle necessità dei più piccoli, dei più sventurati. Ti ricordo ancora, nel palazzo del potere, sempre più sfiduciato, spettatore come me del degrado che ci circondava: e tuttavia, anche nello squallore di quelle stanze grigie, non perdevi la tua ironia beffarda, il tuo umorismo lieve ma graffiante. Come sembra tutto distante, indistinto… Tu che stai morendo ed io che sembro vivo. Torna alla mia memoria il ciclo degli “Addii” del maggiore pittore futurista italiano, Umberto Boccioni, le pagine da lui dedicate alla poetica di “Quelli che vanno e quelli che restano”. Rivedo quei quadri in ogni particolare, distinguo ogni singolo dettaglio, nessun poeta è riuscito ad esprimere più compiutamente il senso di abbandono, di dolorosa separazione, il rimpianto amaro che lacera il commiato tra quelli che vanno e quelli che, provvisoriamente, restano. Quante speranze stroncate, quante illusioni disattese, quante energie, tensioni, quanto anelare verso qualcosa che ci poniamo sempre davanti, un obiettivo, una meta, che spostiamo man mano che il tempo passa sempre un po’ più in là, per poi capire che non ci sono mete, non ci sono traguardi, che la vita si vive giorno per giorno, ora per ora, che i traguardi sono solo una verità consolatoria che ci aiuta a seguitare una esistenza che, in fondo, è solo volgare, è solo un grottesco girare a vuoto su se stessi, che nulla, in questo mondo, è degno del nostro amore e del nostro spirito, e che l’unica cosa sensata che possiamo fare è fermarci, ogni tanto, a prendere fiato e ad assaporare quel singolo momento tutto per noi. Questo nostro essere qui ed ora, ad osservare un tramonto trapuntato di stelle, la placida notte illuminata dalla luna, la distesa immensa di colline dolci e smeraldine, le case bianche di calce assolate e abbacinanti, la risacca del mare all’ombra di un palmizio, le sterminate pianure bionde di granoturco,  lo sciabordio dell’acqua che scivola sulle pietre nude, l’abbraccio di un amico, un amico vero, la sua stretta di mano, forte, decisa, le lacrime che rigano le nostre gote, il nostro “arrivederci”, senza dire una parola perché non ci sono più parole, c’è solo il silenzio che va oltre le parole.
Questo vorrei dirti, ora che ci dobbiamo lasciare, ma queste cose tu le conosci già, e allora le scrivo perché servano a me da monito e da speranza, a me che rimango qui, un po’ più solo e un po’ più triste, a me che continuo ad alzarmi la mattina presto per tirare aventi una giornata stupida e priva di significato, fino alla sera, la sera che tengo tutta per me, l’unico angolo dove nessuno può entrare, l’angolo dei sentimenti soffusi ed impalpabili, delicati ed indicibili, delle emozioni sincere e delle percezioni più sottili, quando scrivere è facile come respirare. In questo momento, questo preciso momento in cui scrivo queste righe il mio spirito vola accanto al tuo, ti sussurra piano un arrivederci, ti abbraccia forte un ultima volta, ti affida una parte importante della mia anima, non la dimenticare, portala sempre con te, come io porterò sempre con me il tuo ricordo. Ti guardo ancora una volta, adesso che la vita non ti ha ancora abbandonato, ti guardo e questo sguardo è l’ultima cosa che vedo e che trattengo prima che la vita del giorno si spenga anche dentro di me.

A Claudio un arrivederci nei Campi Elisi, certo che sarà presto tra le braccia del Padre.