giovedì 28 luglio 2016

E’ IL NOSTRO TRAMONTO QUELLO CUI ASSISTIAMO. E NOI LO GUARDIAMO COME SE NON CI RIGUARDASSE



Se fossi un predicatore di strada, uno di quelli che con il trench liso, la barbona incolta e cristologica, il microfono e le casse portatili montate sopra i carrellini che le vecchiette usano per andare a fare spesa nei supermercati, direi che quello che sta accadendo all'Europa sono le nostre piaghe d'Egitto e che in qualche modo ce le siamo meritate. Ma non per qualche colpa storica, non per il perenne senso di colpa che affligge l'Occidente, che poi il senso di colpa è tutto relativo, si tratta più che altro di una scusa per giustificare tutto, in primis la nostra mancanza di volontà non solo di agire ma di pensare al di fuori dei comodi schemi che ci siamo creati e in cui siamo i buoni, i comprensivi, i corretti proprio per riscattarci dal solito senso di colpa storico, di cui sopra.
Se fossi uno di quei predicatori direi che ce le meritiamo queste piaghe per il nostro perverso gusto voyeuristico di guardarci morire, di guardare annientare millenni di storia, civilizzazione e fede senza fare niente. Assistendo al terrore paralizzante che sale progressivamente e in modo inarrestabile dentro tutto noi. Assistendo con sottile e malcelato piacere a un evento finalmente grande nella nostra storia recente così povera di fatti epocali, perché finalmente intravediamo il tramonto dell'Occidente e ne siamo felici. E se fossi un predicatore direi che ce le meritiamo, le piaghe, per il gusto che abbiamo di parlarci addosso ogni giorno che viene alzata l'asticella dell'orrore. Per stare lì a fare distinzioni sopra la natura del velcro tutte le volte che un attentatore islamico decide di mettersi a sterminare qualche infedele. E così nella maggior parte casi, dopo uno qualsiasi dei vari massacri, mentre sei lì a leggere uno dei "giornaloni" che raccontano il fatto bisogna aspettare di arrivare, bene che vada, all'ultima riga per trovare la parola islam, e quando ascolti un tg devi aspettare l'ultima battuta del giornalista per trovare la parola islam, e quando senti il Papa proprio non la trovi la parola islam ma solo che è una guerra innescata dai liberisti mercanti d'armi, perché i termini sembrano equivalersi, anche quando sgozzano un prete in una chiesa di Rouen inneggiando allo Stato islamico, anche lì è colpa del liberismo che genera guerre e tanto tanto odio, anche lì non è affatto una questione religiosa e l'ideologia islamica proprio non c'entra nulla.
Direi tutto questo se fossi un predicatore di strada. Ma non lo sono, o almeno non ancora. Se ci fermiamo un attimo e proviamo a guardare quelli che stanno attorno a noi, se guardiamo dentro di noi, ci accorgeremmo che la questione più ricorrente oggi è sempre di più quella di cercare di capire se ci troviamo all'interno di un incubo o se sia davvero la realtà quello che stiamo vivendo. C'è un rifiuto della realtà, di quello che accade e dei motivi per cui accade. Spesso speriamo, vanamente, di trovarci soltanto all'interno di un brutto film apocalittico. Il rifiuto della realtà, l'incapacità di accettarla, è diventata questa la prima questione che ci perseguita, ben prima di quella che nell'ultimo secolo è stata in cima a tutte le altre, ovvero: Dio esiste? E se mai è esistito, è davvero morto? Quest'ultima, infatti, più di essere una domanda a cui si è risposto, è una domanda dimenticata.
Vorremmo che la realtà non sia ciò che è, ciò che è diventata. Sembra che non siamo pronti al presente, almeno così sembra, almeno questo è quello che ci ripetono i nostri ombelicali opinionisti: che siamo incapaci di affrontare le sfide che la globalizzazione ci pone davanti, che non siamo in grado di gestire il nuovo assetto del mondo, che non siamo capaci di assimilare il flusso di profughi, che non siamo in grado di integrarli, che non siamo in grado di agire, che non siamo pronti a reagire a una imminente sottomissione, che la sottomissione non esiste, che tutto è il contrario di tutto e che, in generale, non siamo pronti a niente.
Ma se per un attimo, invece, provassimo a vedere la cosa da una prospettiva diversa? Forse allora ci accorgeremo che magari l'Occidente non sta facendo altro che compiere il proprio destino. Forse per un attimo potremmo guardarci, accettarci e dirci che in realtà siamo prontissimi a quello che sta accadendo. Forse siamo, magari per l'ultima volta, ancora avanguardia del mondo. Forse siamo i più pronti di tutti a questi tempi nuovi. E allora, proprio per questo, proprio perché forse abbiamo capito il nostro ruolo, quello di una società che subisce l'evoluzione della storia e ne viene schiacciata ed è il suo turno di sparire, siamo pronti a tramontare, a portare a compimento la nostra fine. E allora tutte le questioni su cui ci accapigliamo di continuo, la nostra incapacità di sapere quello che fare davanti agli attacchi che accadono ormai quotidianamente, l'incapacità di chiamare le cose con il loro nome, l'incapacità di pensare un futuro per noi, l'incapacità di difendere le nostre libertà e i nostri traguardi epocali in termini di pace e miglioramento di vita a cui l'Occidente ha portato e sta portando sempre più persone in tutto il mondo sollevandoli da una condizione men che miserevole, l'incapacità di essere orgogliosi di noi stessi e dei nostri valori, dei nostri traguardi e del bene che il nostro modello culturale ha generato, l'incapacità di volerlo conservare difendendolo con ogni mezzo a nostra disposizione, tutte queste incapacità e mancanze, forse, altro non sono che un modo di aprire le porte agli strumenti che determineranno la nostra fine.
Forse dovremmo allontanarci da noi stessi, dalla nostra quotidianità, dalle nostre vite e soprattutto da quello che ci auguriamo per noi, per gli altri e per il mondo. Forse, guardandoci da fuori, potremmo per un attimo piombare nello storicismo, smetterla di disprezzarlo o di trattarlo con sufficienza, e pensare che in fin dei conti anche questo altro non è che ciò che deve essere. L'ennesimo frutto, necessario e maturo, dell'evoluzione storica.