martedì 16 ottobre 2012

LUKA



Potevo avere sì e no nove  anni. Come tutte le estati, mi trovavo in una località dell’entroterra della mia regione, dove mi recavo, con mio padre e mia madre,  in villeggiatura ogni anno, ad ogni vacanza estiva. Era il 28 luglio, festa patronale di quel paese, e quella sera, consumato di malavoglia un frugale pasto, mi congedai dai miei genitori per scendere in paese, solo e con l’intenzione di evitare accuratamente i miei compagni di allora, tutti ragazzi intorno alla mia età. Arrivai alla piazza del paese alle nove di sera, tutto era illuminato dalla luce opaca e malinconica dei festoni che penzolavano dalla chiesa e dalle luci sghembe delle bancarelle che affollavano la piazza. Cercai di rimanere nel perimetro della piazza, lungo il suo bordo, non tanto per non mescolarmi alla folla, ma per evitare di incontrare i miei amici. Avevo voglia di stare solo, solo in mezzo a tutta quella gente. Non mi aggirai dunque tra le bancarelle che vendevano dolci, ciambelle e vestiti a buon mercato, cercai, senza farmi notare, di restare ai margini della folla. Avevo già intravvisto qualche amichetto di giochi e svaghi spensierati al fiume poco lontano dal centro abitato, ma riuscii a non farmi notare. Non sapevo bene il perché, non riuscivo a mettere a fuoco il motivo, ma avevo voglia di restare solo, non cercavo compagnia. Un senso di angoscia e di oppressione mi premeva sul petto, avevo voglia di piangere, piangere in mezzo a tanto divertimento, tra i fumi nauseanti degli olii per troppo tempo usati,  tra il vociare di qualche paesano che, in dialetto stretto, denunciava un tasso alcolico già elevato. D’un tratto, la mia attenzione fu attratta da una bancarella diversa da tutte le altre, poco illuminata e seminascosta in uno degli angoli della piazza. Dietro il banco malfermo, stava un omone di circa cinquant’anni con un paio di gran baffi ed un cappello da militare sovietico, lo riconobbi dall’inconfondibile stella rossa che campeggiava sulla visiera. Mi avvicinai il più furtivamente possibile, scivolando sui gradini della chiesa come un’ombra, ed una volta davanti a quel signore mi accorsi che vendeva cimeli di guerra, medaglie, distintivi dell’Armata Rossa. Scelsi la stella gialla in campo rosso circondata da rami di alloro che ornava il cappello dei soldati russi, gli chiesi il prezzo, pagai e misi in tasca la stella. Imbucai il primo vicolo che trovai, per uscire dal clamore della folla, camminai a passo svelto verso il ponte sul fiumiciattolo che portava al Municipio del paese, e al viale che conduceva al camposanto. Una volta giunto di fronte al palazzo del Comune, mi voltai a sinistra e mi incamminai verso la villa di un mio conoscente, che era circondata da un parco orlato da una striscia di terra incolta, un lembo di prato fatto a terrazza che aveva più volte accolto i nostri giochi fanciulleschi. Potevano essere la dieci, dieci e mezza, il cielo sopra di me era sereno, completamente sgombero dalle nubi, una placida luna emanava il suo chiarore turchino, che si specchiava sul fiume sottostante, che riverberava sul tetto e sulla cancellata della villa soprastante, in riflessi  argentei e metallici.  Ora ero sdraiato sul manto erboso non tagliato di fresco e quindi ancora odoroso di brina, di terra bagnata, di campagna. Più a destra un boschetto di castagni si stagliava tra la fascia di terra sulla quale mi trovavo e il cielo, pieno di ombre misteriose e furtive. Allargai allora lo sguardo su, nel cielo stellato: vidi file di ortaggi rossi che si perdevano nell’orizzonte luminoso, sentii il fresco bacio sensuale della rugiada colare lento dalle guance, sentii il vago stordimento dell’infinito gettando uno sguardo nelle acque giallastre del fiumiciattolo,  sentii le strida degli stormi delle anatre selvatiche che migravano verso sud, sentii la struggente malinconia di un tramonto nascosto dalle masse di nubi accese di porpora e d’oro, sopra un sole invisibile,  quello stesso tramonto che rivedevo riflesso nei vetri quadrati delle case bianche di calce, provai la sete che mi prese prima di bere il succo limpido e dolce che sgorgava da una noce di cocco, sentii la solenne maestà del boschetto di castagni ricoperti di muschio azzurro, vidi la dolce gioia delle lucciole che si accendevano nel buio, sentii con tutti i miei sensi il penetrante, regale profumo della soave magnolia, provavo il senso di irrazionale libertà che si ricava dal fruscio delle alte erbe verdi, luccicanti di luna, sentivo nella bocca l’agro sapore del primo caco acerbo della stagione, stemperato dal dolce e rosso succo dei lamponi, rivedevo le lunghe, lente, languide giornate di pioggia, passate dietro al finestrone, ma soprattutto, al di sopra di tutto, al di là di ogni immaginazione, vi fu il muto terrore che m’invase quando immensi pulviscoli dorati scesero verso terra, dai cieli carichi di stelle mute, nella notte silenziosa, la stessa  notte nella quella mi trovavo tra sogno e realtà. Quella notte l’infinito scese sopra di me, mi coprì come un manto leggero e delicato, ed ogni goccia del mio sangue ne fu pervasa e annichilita.
Il presente post è liberamente ispirato all’omonima canzone di Suzanne Vega.