Potevo avere sì e no nove anni. Come tutte le estati, mi trovavo in una
località dell’entroterra della mia regione, dove mi recavo, con mio padre e mia
madre, in villeggiatura ogni anno, ad
ogni vacanza estiva. Era il 28 luglio, festa patronale di quel paese, e quella
sera, consumato di malavoglia un frugale pasto, mi congedai dai miei genitori
per scendere in paese, solo e con l’intenzione di evitare accuratamente i miei
compagni di allora, tutti ragazzi intorno alla mia età. Arrivai alla piazza del
paese alle nove di sera, tutto era illuminato dalla luce opaca e malinconica
dei festoni che penzolavano dalla chiesa e dalle luci sghembe delle bancarelle
che affollavano la piazza. Cercai di rimanere nel perimetro della piazza, lungo
il suo bordo, non tanto per non mescolarmi alla folla, ma per evitare di
incontrare i miei amici. Avevo voglia di stare solo, solo in mezzo a tutta
quella gente. Non mi aggirai dunque tra le bancarelle che vendevano dolci,
ciambelle e vestiti a buon mercato, cercai, senza farmi notare, di restare ai
margini della folla. Avevo già intravvisto qualche amichetto di giochi e svaghi
spensierati al fiume poco lontano dal centro abitato, ma riuscii a non farmi
notare. Non sapevo bene il perché, non riuscivo a mettere a fuoco il motivo, ma
avevo voglia di restare solo, non cercavo compagnia. Un senso di angoscia e di
oppressione mi premeva sul petto, avevo voglia di piangere, piangere in mezzo a
tanto divertimento, tra i fumi nauseanti degli olii per troppo tempo usati, tra il vociare di qualche paesano che, in
dialetto stretto, denunciava un tasso alcolico già elevato. D’un tratto, la mia
attenzione fu attratta da una bancarella diversa da tutte le altre, poco
illuminata e seminascosta in uno degli angoli della piazza. Dietro il banco
malfermo, stava un omone di circa cinquant’anni con un paio di gran baffi ed un
cappello da militare sovietico, lo riconobbi dall’inconfondibile stella rossa
che campeggiava sulla visiera. Mi avvicinai il più furtivamente possibile,
scivolando sui gradini della chiesa come un’ombra, ed una volta davanti a quel
signore mi accorsi che vendeva cimeli di guerra, medaglie, distintivi
dell’Armata Rossa. Scelsi la stella gialla in campo rosso circondata da rami di
alloro che ornava il cappello dei soldati russi, gli chiesi il prezzo, pagai e
misi in tasca la stella. Imbucai il primo vicolo che trovai, per uscire dal
clamore della folla, camminai a passo svelto verso il ponte sul fiumiciattolo
che portava al Municipio del paese, e al viale che conduceva al camposanto. Una
volta giunto di fronte al palazzo del Comune, mi voltai a sinistra e mi
incamminai verso la villa di un mio conoscente, che era circondata da un parco
orlato da una striscia di terra incolta, un lembo di prato fatto a terrazza che
aveva più volte accolto i nostri giochi fanciulleschi. Potevano essere la
dieci, dieci e mezza, il cielo sopra di me era sereno, completamente sgombero
dalle nubi, una placida luna emanava il suo chiarore turchino, che si
specchiava sul fiume sottostante, che riverberava sul tetto e sulla cancellata
della villa soprastante, in riflessi
argentei e metallici. Ora ero
sdraiato sul manto erboso non tagliato di fresco e quindi ancora odoroso di
brina, di terra bagnata, di campagna. Più a destra un boschetto di castagni si
stagliava tra la fascia di terra sulla quale mi trovavo e il cielo, pieno di
ombre misteriose e furtive. Allargai allora lo sguardo su, nel cielo stellato:
vidi file di ortaggi rossi che si perdevano nell’orizzonte luminoso, sentii il
fresco bacio sensuale della rugiada colare lento dalle guance, sentii il vago
stordimento dell’infinito gettando uno sguardo nelle acque giallastre del
fiumiciattolo, sentii le strida degli
stormi delle anatre selvatiche che migravano verso sud, sentii la struggente
malinconia di un tramonto nascosto dalle masse di nubi accese di porpora e
d’oro, sopra un sole invisibile, quello
stesso tramonto che rivedevo riflesso nei vetri quadrati delle case bianche di
calce, provai la sete che mi prese prima di bere il succo limpido e dolce che
sgorgava da una noce di cocco, sentii la solenne maestà del boschetto di
castagni ricoperti di muschio azzurro, vidi la dolce gioia delle lucciole che
si accendevano nel buio, sentii con tutti i miei sensi il penetrante, regale
profumo della soave magnolia, provavo il senso di irrazionale libertà che si
ricava dal fruscio delle alte erbe verdi, luccicanti di luna, sentivo nella
bocca l’agro sapore del primo caco acerbo della stagione, stemperato dal dolce
e rosso succo dei lamponi, rivedevo le lunghe, lente, languide giornate di
pioggia, passate dietro al finestrone, ma soprattutto, al di sopra di tutto, al
di là di ogni immaginazione, vi fu il muto terrore che m’invase quando immensi
pulviscoli dorati scesero verso terra, dai cieli carichi di stelle mute, nella
notte silenziosa, la stessa notte nella
quella mi trovavo tra sogno e realtà. Quella notte l’infinito scese sopra di
me, mi coprì come un manto leggero e delicato, ed ogni goccia del mio sangue ne
fu pervasa e annichilita.
Il presente post è liberamente ispirato all’omonima canzone di Suzanne
Vega.