Quanto tempo è passato? Un anno,
mese più, mese meno. Non ho neppure più memoria di come accadde, di come ti
vidi, una mattina di marzo andare via, con la valigia, tornare verso casa. Io,
da allora, vivo come in un sogno, a volte mi risveglio di soprassalto, altre
volte ricado addormentato, spesso percorro sentieri che non ho mai conosciuto, mi ritrovo in lande
desolate, in umide brughiere, sotto i larghi rami del castagno. Il vento muove
i rami che graffiando i vetri riportano l’eco di spari lontani, forse di
cacciatori, forse di bracconieri. Rivedo il tuo volto, e le lacrime scendono da
sole, lungo le gote, tracciano dei solchi che brulicano di vita. E’ la stessa
vita che vidi a Maribor, diversi anni
fa, quando attraversavo il mercato a mezzogiorno, sotto un sole velato carico
di autunno, sulle bancarelle variopinte spiccava il blu cobalto delle
tormaline, il magenta delle spezie e il cinerino dell’incenso. Barcollavo tra
la gente, come ubriaco, cercavo il tuo volto trai i mille che mi sfioravano,
cercavo i tuoi occhi, i tuoi capelli, ma mi ritrovavo al punto di partenza con
un pugno di sabbia ed un bicchiere in mano. Dopo aver pranzato da solo sotto la
veranda di un piccolo locale accanto al mare, mi avviavo vero la spiaggia,
camminando sulla battigia per ammirare l’acqua salata. Ma i colori erano
spenti, un grigio cupo e silenzioso dominava su quel mare, nel cielo i cirri ei
cumuli si inseguivano senza lasciare spazio ad un varco azzurro e luminoso.
Tornando verso l’albergo mi fermavo in un bistrot per acquistare una bottiglia
di un liquore giallino dal gusto squisito, l’incartavo e la portavo con me,
insieme ai rari giornali che riuscivo a trovare. Una volta in albergo, mi
sdraiavo sul letto, in mezzo ad una stanza squallida e tetra, un armadio con le
ante da rifare, un comodino privo di una gamba, nel bagno la doccia aveva la
grata di scolo tutta arrugginita. Mi sdraiavo, dopo una doccia fredda,
sorseggiando il liquore ambrato, disegnavo, sul soffitto pieno di crepe e
ragnatele, i complicati intrecci di un labirinto, le tiepide serate fiesolane,
al canto di chitarre lontane, sotto il turchino cupo di un cielo sereno, senza
una nube. Ti rivedevo ancora sul pontile, l’umido della sera e il vento
scompigliavano i tuoi capelli, davanti ai tuoi larghi occhi blu sentivo dentro
di me franare l’innocenza, un groviglio di emozioni e sensazioni si
affastellavano dentro il mio cuore, sempre più debole, sempre più stanco. Ora
vedevo nel soffitto una linea ininterrotta, costellata di luci dorate sfavillanti,
era una ferrovia, la stessa che attraversavo un tempo, nella notte, volavo nel
buio come una falena. Io, seduto in uno scompartimento solitario, guardavo il
quadro che cambiava da dietro il finestrino, ora campi sconfinati di girasoli,
ora il frumento che ondeggiava al vento, ora i frutteti già carichi di prugne e
melograni, ora la desolazione piatta e marrone della maggese. Nell’oscurità
delle gallerie vedevo il mio volto nel vetro del finestrino, lo vedevo apparire
e scomparire, in un gioco di specchi infinito. Anche in albergo, con la
bottiglia vuota in mano, entravo nel bagno per guardare l’immagine riflessa
nella malandata specchiera sopra il lavandino: mi si mostrava un volto
asciutto, severo, solcato dalle rughe, i capelli ormai bianchi che cadevano
sulla fronte, lo sguardo acceso da una luce antica, quella di mio padre, del
suo paese, quella che si accendeva nelle feste patronali, tra la carne alla
brace che fumigava verso il cielo, e le stoffe stampate con disegni arabescati
vendute dagli ambulanti che accorrevano con le loro mercanzie. Io mi aggiravo
in mezzo ai tavolacci pieni di quarti di vino gocciolanti, gli avanzi di
braciole e cotolette nel vapore acre e maleodorante delle fritture semplici e
pesanti vendute a buon mercato. Mio padre mi aspettava seduto ad un tavolino,
stretto nel suo cappotto, con una grappa in mano. Quando mi vedeva, si alzava
di scatto, tendendomi la mano, ed io, col cuore in gola e un fremito di membra,
cercavo la sua mano nella penombra, ma la luce incerta delle lampade dondolanti
non mi facevano vedere, la sua figura diventava evanescente, il suo volto
sbiadiva fino a scomparire, e la mia mano non stringeva che il vuoto lasciato
da anni di privazioni. Terminavo la
bottiglia, non avevo più fantasia, mi alzavo a fatica e mi dirigevo verso la
finestra mezzo aperta: in strada qualche raro passante si affrettava, accelerava
il passo per trovare il riparo di una
casa accogliente, di una famiglia confortante, di un calore mai assente. La
scritta al neon del bar di fronte alla mia stanza si accendeva e si spegneva
continuamente, la vedevo riflessa nello specchio, tornavo a sdraiarmi sul letto
cigolante. Chiudevo gli occhi, l’ultima cosa che vedevo prima del sonno amaro era
il tuo volto di bambina, correvi in un prato in mezzo a fiori di campo, sotto
un cielo sereno di un’estate non ancora trascorsa e di là da venire. Il sonno
mi vinceva, sorvolavo gli altopiani innevati, le cime argentate, stringevo le
mani di gente di passaggio, abbracciavo un vecchio che piangeva sconsolato, mi trovavo a correre, nella
strada polverosa, verso una torma di ragazzine in festa, erano candidi i loro
abiti, erano linde le loro gonne al vento, svolazzavano i fiocchi viola che tenevano le lunghe chiome. Mi sveglio, finalmente, in mezzo alla notte, ho tanto girovagato,
nella realtà, e nella fantasia. Ho tanto sperato, pregato, supplicato: ti ho
tanto cercata da non capire che sei qui, davanti a me e che ti potrei parlare.
Non è vero, è solo un’illusione, cerco la tua mano ma trovo solo il bracciolo
della poltrona. Ma non importa, non fa nulla. Gli anni sono solo dei momenti,
tu sei sempre stata qui, ti ho cercata, ti ho evocata, ho scritto di te, ho
tanto fantasticato. Gli anni, gli eventi trascorsi con te non me li può
sottrarre più nessuno. Sono sempre vivi,
più che mai, nella lussuosa dimora della mia memoria. Non mi hai mai lasciato,
neppure per un istante.