Ogni anno, una volta all’anno, si dedica una giornata alla
shoah, l’olocausto degli ebrei da parte dei criminali nazisti. Si celebra
questo memoriale stancamente, ogni volta con le stesse frasi di circostanza. Le
stesse parole, qualche volta gonfie di retorica. Si parla del “diario di Anna
Frank” per ingentilire la giornata, facendola affogare in un mare di melassa.
Ricordare l’olocausto non vuol dire parlare di
Anna Frank e del suo diario. Significa studiare a fondo il fenomeno
nazionalsocialista, significa guardare e riguardare le immagini atroci dei
campi di sterminio, immagini che rimangono scolpite nei cuori di ognuno di noi.
Ricordare l’olocausto non ha niente a che fare con le stanche e ripetitive
celebrazioni di una giornata all’anno. Vuole dire leggere “Se questo è un uomo”
di Primo Levi, un uomo eccezionale che scrisse la pagina di condanna del
nazismo più eloquente e spietata di qualsiasi trattato o saggio su Hitler e il
suo movimento. Levi, con uno stile asciutto e privo di qualsiasi accento enfatico,
formula una condanna senza appello di quei crimini, crimini che non potevano
essere ignorati dalla popolazione civile. Lo sterminio di sei milioni di ebrei,
con campi di concentramento disseminati anche nella stessa Germania, esclude
completamente la possibilità che il popolo tedesco fosse all’oscuro di quanto
stava accadendo. C’erano i pienamente consapevoli, certo, ma soprattutto quelli
che non sapevano perché si turavano il naso e le orecchie. La spiegazione
antropologica del dilemma del nazismo, un enigma non ancora pienamente risolto,
è contenuta nel magnifico saggio, scritto dallo stesso levi, “I salvati e i sommersi”.
Primo Levi, dopo aver dato al mondo la più cruda e realistica interpretazione
di quanto misero in atto i nazisti, pose fine alla sua stessa esistenza,
suicidandosi. Tanto pesante era il fardello, anche a distanza di molti anni, di
quanto aveva veduto, di quello che la sua mente aveva a stento assimilato. Una
realtà incredibile, che non ha mai avuto precedenti nella storia del mondo, una
storia di atrocità senza fine, di miseria, di povertà spirituale, di ferocia
spietata, fatta non solo di azioni tremende e irripetibili, ma sorretta da una
ideologia, soprattutto quella di Chamberlain e Rosenberg, i maggiori fautori
del razzismo. La dottrina della razza si fondava su presupposti teorici, per
quanto raffazzonati alla meglio e a volte del tutto fantasiosi. Ma il solo
fatto che gli stermini avessero addirittura dei presupposti ideologici non fa
che aggravare la posizione del popolo tedesco, che leggeva i giornali nazisti,
ascoltava la radio di regime, assisteva alle loro manifestazioni e quindi
sapeva perfettamente che il proposito di Hitler era quello di purificare la
razza ariana e liberarla dal cancro ebraico. C’è una frase, nel libro di Levi,
che è più eloquente di qualsiasi dissertazione: “Noi abbiamo viaggiato fin qui
nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le
nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte
avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell’anima prima che dalla morte
anonima. Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare
al mondo , insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto,
ad Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo”. C’è un altro,
memorabile passo, che ricordo nitidamente: nessuna pena, nessun castigo, nessun
giudizio, insomma nulla che sia in potere dell’uomo può cancellare quanto
avvenuto. Ci sono colpe che sono inemendabili, anche dopo secoli di storia,
colpe che non si possono più rimuovere.
Sono scolpite nelle coscienze di ogni essere umano degno di essere tale.
Non deve apparire strumentale il discorso appena fatto. So
che l’accostamento alla contrazione economica che stiamo vivendo ormai da
cinque anni, e che continuerà per diversi decenni, può apparire ad alcuni
addirittura indecente. Eppure, c’è qualcosa nell’animo dei tedeschi di
insopprimibile, una volontà di potenza, di dominio e di sopraffazione che ha i
suoi prerequisiti in Nietzsche, in Wagner, in Hitler stesso. Qualcosa nella loro
memoria ancestrale che li porta, dai tempi dei Visigoti, alla ricerca della
conquista del “lebensraum” lo spazio vitale di cui il popolo tedesco non è mai
sazio, è qualcosa che non ha una facile spiegazione, ma che ricompare ogni
volta dopo le sconfitte. I tedeschi hanno causato due guerre mondiali, nel
secolo scorso, le hanno perdute entrambe, lasciando dietro di sé una scia
infinita di vittime. I conflitti armati, che nel civilissimo ventunesimo secolo
si sono spostati sul piano dell’economia e della finanza, li vedono ancora una
volta protagonisti. Abbiamo concesso loro di riunificarsi, anche se è stato un
errore. Ma il blocco degli stati dell’est si era sgretolato e con essi anche il
muro di Berlino è caduto. Ora abbiamo compreso che è stato uno sbaglio. Berlino
e la Germania sono state divise solo per una cinquantina d’anni: per quello che
hanno commesso non sarebbero bastati cinquanta secoli. Abbiamo dato vita
all’euro, l’Italia è stato il paese, con i trattati di Roma, a dare l’avvio al
processo di integrazione europea, prima con il MEC, poi con la CEE, infine con
l’UE. Ci siamo dati una moneta comune, ma la BCE è rimasta ostaggio, a
Francoforte, nel loro territorio, della Bundesbank, e con l’euro convertito
alla pari con il marco, i tedeschi si sono pagati la difficile riunificazione.
Adesso vivono loro alle nostre spalle, lucrando su tassi di interesse (il
famoso spread), che siamo costretti a versare per vendere i nostri titoli di
stato, pagando di fatto il loro debito, contratto, viceversa, a tassi prossimi
allo zero. La politica comunitaria tedesca è molto semplice, l’ha spiegata
molto bene , qualche giorno fa il signor Weidmann, presidente della Bundesbank;
“si fa come diciamo noi, perché siamo i più forti e qui comandiamo noi”. Fine
del discorso. Nessuna condivisione del debito con emissione di eurobond,
nessuna unione bancaria con relativo
quantitative easing da parte della BCE alle banche in difficoltà, gli aiuti
vengono concessi in cambio di cessione di sovranità. Il fondo di stabilità ESM
non può partire perché la Corte Costituzionale tedesca si pronuncerà a riguardo
solo a settembre. Tutto questo, se non avesse conseguenze drammatiche, dovrebbe
suscitare la nostra ilarità. Il popolo rigoroso, austero, predicatore di
sacrifici e privazioni, paladino dell’onestà e della rettitudine, la nazione
più moralista, in economia, del mondo intero, è stata capace di compiere le
orrende nefandezze dell’olocausto. Suona strano, oggi, ad appena settant’anni
da quegli avvenimenti, sentire i fervorini che ci pervengono dal maggiore dei
paesi “virtuosi”, a noi, che siamo un paese “vizioso”. La finanza, perché di
questo si tratta, (l’economia reale è un’altra cosa), la dittatura finanziaria
cui siamo sottoposti ha sovvertito qualunque valore, la realtà stessa. L’economia
reale della Germania non è affatto come appare filtrata dalla finanza priva di
regole: il debito pubblico implicito, se sommato a quello esplicito (quello
delle statistiche) è molto superiore al nostro. Anche in economia la Germani
non è affatto, rispetto all’Italia, un paese virtuoso. Ma le alchimie della
finanza drogata dei mercati hanno ridato una verginità ad un paese che andava,
per quanto aveva fatto, addirittura escluso dall’Unione europea, oppure
condannato a restare diviso. Che i tedeschi, che hanno nel loro DNA l’ideologia
di Nietzsche, vengano a farci la morale, beh, francamente, è cosa da far
accapponare la pelle.
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