sabato 11 agosto 2012

PER DIGNITA', NON PER ODIO

Ogni anno, una volta all’anno, si dedica una giornata alla shoah, l’olocausto degli ebrei da parte dei criminali nazisti. Si celebra questo memoriale stancamente, ogni volta con le stesse frasi di circostanza. Le stesse parole, qualche volta gonfie di retorica. Si parla del “diario di Anna Frank” per ingentilire la giornata, facendola affogare in un mare di melassa. Ricordare l’olocausto non vuol dire parlare di  Anna Frank e del suo diario. Significa studiare a fondo il fenomeno nazionalsocialista, significa guardare e riguardare le immagini atroci dei campi di sterminio, immagini che rimangono scolpite nei cuori di ognuno di noi. Ricordare l’olocausto non ha niente a che fare con le stanche e ripetitive celebrazioni di una giornata all’anno. Vuole dire leggere “Se questo è un uomo” di Primo Levi, un uomo eccezionale che scrisse la pagina di condanna del nazismo più eloquente e spietata di qualsiasi trattato o saggio su Hitler e il suo movimento. Levi, con uno stile asciutto e privo di qualsiasi accento enfatico, formula una condanna senza appello di quei crimini, crimini che non potevano essere ignorati dalla popolazione civile. Lo sterminio di sei milioni di ebrei, con campi di concentramento disseminati anche nella stessa Germania, esclude completamente la possibilità che il popolo tedesco fosse all’oscuro di quanto stava accadendo. C’erano i pienamente consapevoli, certo, ma soprattutto quelli che non sapevano perché si turavano il naso e le orecchie. La spiegazione antropologica del dilemma del nazismo, un enigma non ancora pienamente risolto, è contenuta nel magnifico saggio, scritto dallo stesso levi, “I salvati e i sommersi”. Primo Levi, dopo aver dato al mondo la più cruda e realistica interpretazione di quanto misero in atto i nazisti, pose fine alla sua stessa esistenza, suicidandosi. Tanto pesante era il fardello, anche a distanza di molti anni, di quanto aveva veduto, di quello che la sua mente aveva a stento assimilato. Una realtà incredibile, che non ha mai avuto precedenti nella storia del mondo, una storia di atrocità senza fine, di miseria, di povertà spirituale, di ferocia spietata, fatta non solo di azioni tremende e irripetibili, ma sorretta da una ideologia, soprattutto quella di Chamberlain e Rosenberg, i maggiori fautori del razzismo. La dottrina della razza si fondava su presupposti teorici, per quanto raffazzonati alla meglio e a volte del tutto fantasiosi. Ma il solo fatto che gli stermini avessero addirittura dei presupposti ideologici non fa che aggravare la posizione del popolo tedesco, che leggeva i giornali nazisti, ascoltava la radio di regime, assisteva alle loro manifestazioni e quindi sapeva perfettamente che il proposito di Hitler era quello di purificare la razza ariana e liberarla dal cancro ebraico. C’è una frase, nel libro di Levi, che è più eloquente di qualsiasi dissertazione: “Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell’anima prima che dalla morte anonima. Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo , insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo”. C’è un altro, memorabile passo, che ricordo nitidamente: nessuna pena, nessun castigo, nessun giudizio, insomma nulla che sia in potere dell’uomo può cancellare quanto avvenuto. Ci sono colpe che sono inemendabili, anche dopo secoli di storia, colpe che non si possono  più rimuovere. Sono scolpite nelle coscienze di ogni essere umano degno di essere tale. 

Non deve apparire strumentale il discorso appena fatto. So che l’accostamento alla contrazione economica che stiamo vivendo ormai da cinque anni, e che continuerà per diversi decenni, può apparire ad alcuni addirittura indecente. Eppure, c’è qualcosa nell’animo dei tedeschi di insopprimibile, una volontà di potenza, di dominio e di sopraffazione che ha i suoi prerequisiti in Nietzsche, in Wagner, in Hitler stesso. Qualcosa nella loro memoria ancestrale che li porta, dai tempi dei Visigoti, alla ricerca della conquista del “lebensraum” lo spazio vitale di cui il popolo tedesco non è mai sazio, è qualcosa che non ha una facile spiegazione, ma che ricompare ogni volta dopo le sconfitte. I tedeschi hanno causato due guerre mondiali, nel secolo scorso, le hanno perdute entrambe, lasciando dietro di sé una scia infinita di vittime. I conflitti armati, che nel civilissimo ventunesimo secolo si sono spostati sul piano dell’economia e della finanza, li vedono ancora una volta protagonisti. Abbiamo concesso loro di riunificarsi, anche se è stato un errore. Ma il blocco degli stati dell’est si era sgretolato e con essi anche il muro di Berlino è caduto. Ora abbiamo compreso che è stato uno sbaglio. Berlino e la Germania sono state divise solo per una cinquantina d’anni: per quello che hanno commesso non sarebbero bastati cinquanta secoli. Abbiamo dato vita all’euro, l’Italia è stato il paese, con i trattati di Roma, a dare l’avvio al processo di integrazione europea, prima con il MEC, poi con la CEE, infine con l’UE. Ci siamo dati una moneta comune, ma la BCE è rimasta ostaggio, a Francoforte, nel loro territorio, della Bundesbank, e con l’euro convertito alla pari con il marco, i tedeschi si sono pagati la difficile riunificazione. Adesso vivono loro alle nostre spalle, lucrando su tassi di interesse (il famoso spread), che siamo costretti a versare per vendere i nostri titoli di stato, pagando di fatto il loro debito, contratto, viceversa, a tassi prossimi allo zero. La politica comunitaria tedesca è molto semplice, l’ha spiegata molto bene , qualche giorno fa il signor Weidmann, presidente della Bundesbank; “si fa come diciamo noi, perché siamo i più forti e qui comandiamo noi”. Fine del discorso. Nessuna condivisione del debito con emissione di eurobond, nessuna  unione bancaria con relativo quantitative easing da parte della BCE alle banche in difficoltà, gli aiuti vengono concessi in cambio di cessione di sovranità. Il fondo di stabilità ESM non può partire perché la Corte Costituzionale tedesca si pronuncerà a riguardo solo a settembre. Tutto questo, se non avesse conseguenze drammatiche, dovrebbe suscitare la nostra ilarità. Il popolo rigoroso, austero, predicatore di sacrifici e privazioni, paladino dell’onestà e della rettitudine, la nazione più moralista, in economia, del mondo intero, è stata capace di compiere le orrende nefandezze dell’olocausto. Suona strano, oggi, ad appena settant’anni da quegli avvenimenti, sentire i fervorini che ci pervengono dal maggiore dei paesi “virtuosi”, a noi, che siamo un paese “vizioso”. La finanza, perché di questo si tratta, (l’economia reale è un’altra cosa), la dittatura finanziaria cui siamo sottoposti ha sovvertito qualunque valore, la realtà stessa. L’economia reale della Germania non è affatto come appare filtrata dalla finanza priva di regole: il debito pubblico implicito, se sommato a quello esplicito (quello delle statistiche) è molto superiore al nostro. Anche in economia la Germani non è affatto, rispetto all’Italia, un paese virtuoso. Ma le alchimie della finanza drogata dei mercati hanno ridato una verginità ad un paese che andava, per quanto aveva fatto, addirittura escluso dall’Unione europea, oppure condannato a restare diviso. Che i tedeschi, che hanno nel loro DNA l’ideologia di Nietzsche, vengano a farci la morale, beh, francamente, è cosa da far accapponare la pelle.


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