venerdì 3 agosto 2012

LUCI D'AGOSTO


Ieri ho preso la moto e, nonostante la calura dell'ora meridiana, sono risalito sulle alture della mia città, dove mia madre fino a due anni fa (sono già trascorsi due anni!) era ospite di una casa di riposo. Il sole era rovente, ma all'ombra un'aria delicata ti accarezzava la pelle. Superati i viali alberati e man mano che le abitazioni si diradavano, la calma placida del pomeriggio d'agosto mi attraversava i polmoni. Mi fermai a più riprese, per godermi il panorama da due diversi belvedere: da lassù si domina la città e parte del golfo: il riverbero era accecante, non si poteva soffermare a lungo lo sguardo sul mare sottostante. Proseguii alla ricerca di orti e giardini che costituivano la parte più affascinante del tragitto. Quando arrivai alla casa di riposo nulla era mutato: sentii una stretta al cuore, rivedendo mia madre a ridosso del muro di cinta dell'istituto, oltrepassai quindi l'edificio, per una sosta un po' più avanti. Lasciai la moto e proseguii a piedi. Il silenzio era interrotto solo dal ronzio di grilli e cicale, non si avvertiva alcuna presenza umana. Mi trovavo quasi in aperta campagna, muretti a secco o alte palizzate nascondevano i giardini o i piccoli parchi che circondavano le abitazioni. Ciononostante, aguzzando lo sguardo, intravvedevo l'erba appena tagliata, i sentieri disegnati da grosse pietre, le colture che svettavano dai curatissimi orti. Come erano distanti i problemi di ogni giorno, l'economia, il lavoro, la famiglia! La pace assolata di quell'ora, i profumi del gelsomino e i colori dell'ibisco dominavano incontrastati. Solo qua e là una cascata di bouganvilee interrompeva, con il suo colore intenso, il bianco assoluto delle case, il verde dorato dalla luce del sole. Non sentivo neppure più il caldo, incamminandomi verso l'aperta campagna, sentivo da lontano lo scrosciare dell'acqua di un ruscello, o qualcosa di simile. Era, in effetti, un piccolo corso d'acqua che si perdeva nel bosco sottostante, l'acqua era limpida e fresca, cristallina alla luce sfavillante del sole. Speravo, in cuor mio, che si ripetesse l'incanto delle “calme di luglio” di qualche tempo prima, quando, in questi stessi luoghi mi capitava di sognare ad occhi aperti. Ma il mio cuore era triste, luglio già passato, ed il mio sguardo non era più trasognato come allora. Continuai comunque la passeggiata, con gli occhi ricolmi dei colori di un agosto appena cominciato, un velo di sudore mi imperlava appena la fronte, ma la brezza che spirava dai monti rendeva più agevole il cammino. Non mi rendevo conto di quanto strada avevo percorso: un casolare mi si parò davanti, grigio, cadente, le porte e le finestre sprangate. Mi sedetti su quello che restava di una panca in muratura tutta sbrecciata che si trovava accanto alla porta di ingresso. L’edera aveva avvolto e ricoperto buona parte della facciata, altre erbacce e rampicanti vi allignavano sopra. Eppure, anche in quel pezzo di natura incolta, i profumi ed i colori mi apparvero deliziosi. Fiori di campo crescevano tutto intorno, persino i cespugli e gli arbusti nati spontaneamente sembravano seguire una regola misteriosa. I colori erano fulgidi, il verde abbacinante, mi veniva il desiderio di tuffarmi in quello splendore, come se l’erba alta fosse un mare smeraldino ed accogliente. Mi addentrai in quello che una volta doveva essere un orto e percorsi un giro completo intorno al casolare. Mi girava un poco la testa, ricaddi sulla panca tramortito, forse avevo camminato troppo sotto il sole, nelle mie vene il sangue prese a camminare più lentamente. Girando intorno alla costruzione trovai un vecchio cappello di paglia sfilacciato e con qualche buco, lo indossai comunque, certo che non mi avrebbe visto anima viva. Dopo aver ripreso fiato tornai sui miei passi, facendo il percorso inverso; ad un certo punto distinsi una nera figura che si dirigeva verso di me. Chi poteva essere? Col passare dei secondi mi accorsi che si trattava di un sacerdote, con l’abito talare lungo fino ai piedi. Avanzava verso di me con le braccia conserte, mi sfiorò senza un cenno di saluto, senza scostarsi. Lo vidi allontanarsi di buon passo, col pesante abito reso ancor più nero dai raggi del sole. Nello stesso momento, in quell’istante, uno stormo di corvi si alzò dal tetto del casolare che avevo appena lasciato, e il loro volo mi ricordò il distendersi di un nero sudario che planava tra la terra e il cielo. Quella funerea presenza mi turbò non poco, feci ritorno in fretta al luogo dove avevo lasciato la moto. Vi salii sopra, tornando in fretta a casa, negli occhi avevo ancora la nera sagoma del prete e lo stormo di corvi che si sollevava, quasi obbedendo ad un tacito richiamo. Dopo aver consumato un frugale pasto, mi distesi sul divano, ascoltando la canzone “un tempo piccolo”. Mi ritrovai pienamente in quelle parole, anche la musica mi cullava dolcemente. Non era tardi, ma il sonno mi vinse ugualmente, mi disposi per coricarmi, dopo aver fatto una doccia fredda. Spensi le luci e sdraiandomi sul letto non potei fare a meno di pensare alla nera figura incontrata in quel luminoso pomeriggio. E allo stormo di uccelli neri che lo accompagnavano. Scivolai in un sonno greve, pesante come un macigno, senza ricordi, senza pensieri, senza sogni. La mattina dopo, la signora delle pulizie mi ritrovò disteso sul letto freddo e senza vita. Nella mano stringevo ancora un fiore appassito di campo.

A Franco, che ora è tra le braccia del Padre.