Ieri ho preso la moto e,
nonostante la calura dell'ora meridiana, sono risalito sulle alture della mia
città, dove mia madre fino a due anni fa (sono già trascorsi due anni!) era
ospite di una casa di riposo. Il sole era rovente, ma all'ombra un'aria
delicata ti accarezzava la pelle. Superati i viali alberati e man mano che le
abitazioni si diradavano, la calma placida del pomeriggio d'agosto mi attraversava
i polmoni. Mi fermai a più riprese, per godermi il panorama da due diversi
belvedere: da lassù si domina la città e parte del golfo: il riverbero era
accecante, non si poteva soffermare a lungo lo sguardo sul mare sottostante.
Proseguii alla ricerca di orti e giardini che costituivano la parte più
affascinante del tragitto. Quando arrivai alla casa di riposo nulla era mutato:
sentii una stretta al cuore, rivedendo mia madre a ridosso del muro di cinta
dell'istituto, oltrepassai quindi l'edificio, per una sosta un po' più avanti.
Lasciai la moto e proseguii a piedi. Il silenzio era interrotto solo dal ronzio
di grilli e cicale, non si avvertiva alcuna presenza umana. Mi trovavo quasi in
aperta campagna, muretti a secco o alte palizzate nascondevano i giardini o i
piccoli parchi che circondavano le abitazioni. Ciononostante, aguzzando lo
sguardo, intravvedevo l'erba appena tagliata, i sentieri disegnati da grosse
pietre, le colture che svettavano dai curatissimi orti. Come erano distanti i
problemi di ogni giorno, l'economia, il lavoro, la famiglia! La pace assolata
di quell'ora, i profumi del gelsomino e i colori dell'ibisco dominavano
incontrastati. Solo qua e là una cascata di bouganvilee interrompeva, con il
suo colore intenso, il bianco assoluto delle case, il verde dorato dalla luce
del sole. Non sentivo neppure più il caldo, incamminandomi verso l'aperta
campagna, sentivo da lontano lo scrosciare dell'acqua di un ruscello, o
qualcosa di simile. Era, in effetti, un piccolo corso d'acqua che si perdeva
nel bosco sottostante, l'acqua era limpida e fresca, cristallina alla luce
sfavillante del sole. Speravo, in cuor mio, che si ripetesse l'incanto delle
“calme di luglio” di qualche tempo prima, quando, in questi stessi luoghi mi
capitava di sognare ad occhi aperti. Ma il mio cuore era triste, luglio già
passato, ed il mio sguardo non era più trasognato come allora. Continuai
comunque la passeggiata, con gli occhi ricolmi dei colori di un agosto appena
cominciato, un velo di sudore mi imperlava appena la fronte, ma la brezza che
spirava dai monti rendeva più agevole il cammino. Non mi rendevo conto di
quanto strada avevo percorso: un casolare mi si parò davanti, grigio, cadente,
le porte e le finestre sprangate. Mi sedetti su quello che restava di una panca
in muratura tutta sbrecciata che si trovava accanto alla porta di ingresso.
L’edera aveva avvolto e ricoperto buona parte della facciata, altre erbacce e
rampicanti vi allignavano sopra. Eppure, anche in quel pezzo di natura incolta,
i profumi ed i colori mi apparvero deliziosi. Fiori di campo crescevano tutto
intorno, persino i cespugli e gli arbusti nati spontaneamente sembravano
seguire una regola misteriosa. I colori erano fulgidi, il verde abbacinante, mi
veniva il desiderio di tuffarmi in quello splendore, come se l’erba alta fosse
un mare smeraldino ed accogliente. Mi addentrai in quello che una volta doveva
essere un orto e percorsi un giro completo intorno al casolare. Mi girava un
poco la testa, ricaddi sulla panca tramortito, forse avevo camminato troppo
sotto il sole, nelle mie vene il sangue prese a camminare più lentamente. Girando
intorno alla costruzione trovai un vecchio cappello di paglia sfilacciato e con
qualche buco, lo indossai comunque, certo che non mi avrebbe visto anima viva.
Dopo aver ripreso fiato tornai sui miei passi, facendo il percorso inverso; ad
un certo punto distinsi una nera figura che si dirigeva verso di me. Chi poteva
essere? Col passare dei secondi mi accorsi che si trattava di un sacerdote, con
l’abito talare lungo fino ai piedi. Avanzava verso di me con le braccia
conserte, mi sfiorò senza un cenno di saluto, senza scostarsi. Lo vidi
allontanarsi di buon passo, col pesante abito reso ancor più nero dai raggi del
sole. Nello stesso momento, in quell’istante, uno stormo di corvi si alzò dal
tetto del casolare che avevo appena lasciato, e il loro volo mi ricordò il
distendersi di un nero sudario che planava tra la terra e il cielo. Quella
funerea presenza mi turbò non poco, feci ritorno in fretta al luogo dove avevo
lasciato la moto. Vi salii sopra, tornando in fretta a casa, negli occhi avevo
ancora la nera sagoma del prete e lo stormo di corvi che si sollevava, quasi
obbedendo ad un tacito richiamo. Dopo aver consumato un frugale pasto, mi
distesi sul divano, ascoltando la canzone “un tempo piccolo”. Mi ritrovai
pienamente in quelle parole, anche la musica mi cullava dolcemente. Non era
tardi, ma il sonno mi vinse ugualmente, mi disposi per coricarmi, dopo aver
fatto una doccia fredda. Spensi le luci e sdraiandomi sul letto non potei fare
a meno di pensare alla nera figura incontrata in quel luminoso pomeriggio. E
allo stormo di uccelli neri che lo accompagnavano. Scivolai in un sonno greve,
pesante come un macigno, senza ricordi, senza pensieri, senza sogni. La mattina
dopo, la signora delle pulizie mi ritrovò disteso sul letto freddo e senza
vita. Nella mano stringevo ancora un fiore appassito di campo.
A Franco, che ora è tra le braccia del Padre.