lunedì 23 marzo 2015

COSA HANNO PRODOTTO SEI ANNI DI MALGOVERNO



Tra il 2008 e il 2014 la crisi economica ha portato l'Italia indietro di quasi due decenni.
La popolazione si è impoverita tornando a registrare i redditi medi del 1996 e il Pil del Paese è diminuito del 7,5%.
Una decrescita infelice che ha causato non solo un abbassamento della qualità della vita degli italiani e un suo deterioramento economico e psicologico, ma la perdita di alcuni diritti fondamentali.
SACRIFICATI I DIRITTI UMANI. Se però in questi anni è stato facile monitorare i danni causati dalla crisi misurando i livelli del Pil pro capite e di disoccupazione, lo è stato meno capire quanti di questi diritti umani siano stati sacrificati sull'altare dell'austerità.
A provare a fare un calcolo è stata la Commissione europarlamentare Libertà civili, giustizia e affari interni (Libe) che ha commissionato uno studio per i Paesi dell'Ue più colpiti: Portogallo, Belgio, Irlanda, Spagna, Grecia, Italia, Cipro.
UNA RICERCA DAL 2008 AL 2014. Il rapporto dal titolo 'The impact of the crisis on fundamental rights across Member States of the Eu' si è concentrato sull'impatto che hanno avuto i principali processi di riforme e le misure legislative adottate per contrastare la crisi economica nel periodo che va dal 2008 al 30 giugno 2014.
Per l'Italia i diritti fondamentali analizzati dallo studio sono quello all'educazione, alla salute, al lavoro, alla pensione, alla proprietà.
Ma anche l'accesso alla giustizia e la libertà di manifestazione per protestare contro le misure di austerità.
Diritti che in molti casi sono stati indeboliti, in altri messi da parte, in altri ancora cancellati.
«COLPE DELLA CLASSE POLITICA». Come hanno evidenziato i ricercatori dello studio, «per quanto le riforme nei settori presi in esame fossero necessarie, ciò non significa che le misure effettivamente prese siano state adeguate».
Inoltre, ricordano a Bruxelles, «la colpa per la situazione economica e sociale attuale in Italia è più della classe politica italiana che dei fattori esterni».
Come a dire, lo slogan «è l'Europa che ce lo chiede» non cancella le responsabilità.
Com'è cara la giustizia: più tasse e meno tribunali
Sono state soprattutto le scelte politiche sbagliate oltre ai tagli indiscriminati e lineari a minare il sistema dei diritti fondamentali.
E gli effetti sono sotto gli occhi di tutti, a partire proprio da quel settore che del diritto è il rappresentante: la giustizia. Che nel ramo civile e amministrativo ha sofferto le misure prese durante la crisi.
In particolare, quelle adottate nei sei anni tra il 2008 e il 2014 «hanno portato a un aumento delle tasse per il disbrigo delle pratiche nei tribunali civili del 92% (contro il 15% nei sei anni sino al 2008)», si legge nel rapporto, limitando così il diritto all'accesso alla giustizia.
QUANTI COSTI AGGIUNTIVI. Un diritto messo in pericolo anche da una serie di costi aggiuntivi per le parti in causa (per esempio i ricorrenti sono tenuti a pagare la tassa di iscrizione due volte se il ricorso è respinto o irricevibile).
L'aumento delle tasse per i tribunali amministrativi sono stati contestati davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo (caso non ancora deciso) e alla Corte di giustizia europea (causa in corso), ricorda lo studio.
FINO A 300 EURO DI 'DAZI'. A ciò si aggiunge che le parti sono tenute a pagare ulteriori “dazi” per ottenere le copie dei documenti del fascicolo del caso, i cui costi possono essere particolarmente elevati. Per esempio, fino a 306,97 euro per avere le copie salvate su un cd o su un pennino Usb.
Insomma per avere giustizia bisogna pagare sempre di più. Un accesso a un diritto complicato ulteriormente da una riforma delle condizioni di appello delle sentenze civili.
TAGLI INFRASTRUTTURALI. Inoltre l'accesso negato non è solo teorico ma anche materiale: il numero di palazzi di giustizia è stato ridotto con la chiusura o la fusione di 31 tribunali, 31 pubblici uffici legali, 220 sezioni locali dei tribunali e 667 uffici di giudici di pace (di circa 850 tali uffici).
Riforme che possono allontanare ulteriormente la giustizia dai cittadini, osservano gli analisti comunitari. Allo stesso tempo, tuttavia, alcune scelte possono contribuire a «realizzare riforme che se attuate bene possono aumentare la produttività e consentire l'erogazione di servizi migliori a costi inferiori».
SERVE INFORMATIZZARE. Secondo gli analisti, infatti, per garantire il diritto di accesso alla giustizia l'Italia dovrebbe ridurre le tasse e altri costi di accesso alla giustizia perché non sono adatti per lo scopo dichiarato (ovvero ridurre la congestione del sistema giudiziario).
Per migliorare davvero le prestazioni del sistema senza aumentare i costi, l'Italia «dovrebbe spendere una quota maggiore del bilancio assegnato al sistema di giustizia sull'informatizzazione», suggeriscono a Bruxelles, «in cui l'Italia spende appena l'1,9% del budget, contro una media internazionale del 3,9%». Così come anche sulla formazione e l'istruzione del personale (Italia: 0%, media internazionale: 0,9%).
«PIÙ INTEGRITÀ DEL GOVERNO». Ma soprattutto, per far sì che la giustizia funzioni e sia davvero uguale per tutti, «l'Italia dovrebbe migliorare la qualità delle sue leggi e regolamenti nonché l'integrità del governo, al fine di ridurre i contenziosi».
La spesa per studente non è aumentata dal 1995: unico Paese Ocse
Sul diritto allo studio il rapporto ha esaminato solo la scuola dell'obbligo, i cui diritti sono stati fondamentalmente influenzati dal decreto-Legge 112/2008 (Decreto Brunetta), che ha cercato di tagliare la spesa della scuola pubblica di 8 miliardi di euro, di aumentare il numero di studenti per insegnante, e ridurre il personale non docente delle scuole.
«MEDIA EUROPEA DI +62%». Misure che il rapporto definisce in linea con una lunga tradizione in Italia di «sotto investimento nell'istruzione».
Si legge: «l'Italia è l'unico Paese dell'Ocse nel quale la spesa per studente non è aumentata di un centesimo dal 1995; in confronto, la spesa in altri Paesi Ocse è aumentata in media del 62%».
MENO ACCESSO ALL'ISTRUZIONE. La riduzione delle risorse non ha causato solo disagi materiali, ma ha minato il diritto fondamentale all'istruzione: la fusione di molte scuole più piccole con quelle più grandi può ridurre l'accesso all'istruzione, in particolare per gli studenti con disabilità o in altre condizioni particolari che rendono più difficile per loro l'accesso a scuole situate più lontano da casa.
Per questo, consigliano gli analisti comunitarti, se non è possibile evitare l'accorpamento degli istituti per risparmiare denaro, si consiglia almeno «di rafforzare e garantire il trasporto e altri servizi, in modo da garantire il pieno godimento del diritto all'istruzione».
«SISTEMA GIÀ COMPROMESSO». I tagli alla scuola italiana non hanno comunque fatto altro che minare un sistema già compromesso: ci sono infatti «chiare indicazioni che il sistema italiano di istruzione ha bisogno di essere migliorato», scrivono gli analisti, «test internazionali dimostrano che la popolazione in Italia ha le peggiori competenze alfabetiche in tutta l'area Ocse, il secondo peggiore per le competenze numeriche».
Però, rileva il rapporto, non è tutta colpa della crisi: nonostante i disagi e le proteste che le nuove misure di austerity hanno causato, «la ricerca svolta non conferma che la misure adottate abbiano notevolmente ridotto la (già generalmente bassa, almeno in media) qualità dell'istruzione in Italia».
«QUALITÀ SU DOCENTI E PRESIDI». Certo è che per evitare di continuare a minare il diritto allo studio, l'Italia dovrebbe cessare «il taglio ai fondi all'istruzione, anzi, dovrebbe investire di più nel capitale umano», è il consiglio.
«Suggeriamo inoltre», si legge, «che l'Italia dovrebbe migliorare la qualità del sistema di istruzione, assicurando che le risorse limitate siano utilizzate nel modo più produttivo possibile, attraverso il monitoraggio della qualità di ogni scuola in base a criteri comparabili anche per la scelta di presidi e insegnanti. Criteri, segnala il rapporto, che non siano quelli del'età, ma della qualità, della formazione.
Lavoro e pensioni: i giovani lasciati senza un futuro
Ma con la crisi è proprio il diritto al lavoro ad avere sofferto maggiormente.
La riforma che ha avuto il maggiore impatto è stata la Legge 92/2012 (Legge Fornero) che nel 2012 ha riformato il mercato del lavoro italiano.
PIÙ FACILE LICENZIARE. La riforma ha reso più facile licenziare i lavoratori, si legge nel rapporto, ma ha anche cercato di limitare la pratica di utilizzare determinati contratti di collaborazione in grado di offrire ai lavoratori una protezione inferiore al contratto standard a tempo indeterminato.
Un tentativo però fallito. La riforma infatti «non è riuscita a ridurre la prevalenza di forme di lavoro precario», osservano a Bruxelles.
Insomma «rendere più facili i licenziamenti non ha reso l'accesso al mercato del lavoro più facile», è la sintesi. Un fenomeno che però rilevano gli analisti non deriva tanto dalla riforma, ma soprattutto dalle cupe aspettative dei datori di lavoro sulle prospettive di crescita del loro business e dell'economia italiana in generale.
VECCHIE VULNERABILITÀ. Ad avere subito un attacco diretto è stato invece il diritto alla pensione, modificato con la riforma delle pensioni del ministro Fornero introdotta con il decreto Salva Italia (Legge 201/2011) che ha cambiato i requisiti per andare in pensione e il calcolo della rendita di vecchiaia.
Lo studio rileva che la riforma è stata resa «necessaria per correggere vecchie vulnerabilità demografiche ed economiche come l'invecchiamento della popolazione, l'alto costo del lavoro e la diffusa evasione fiscale che, aggravata dalla crisi, rendeva il sistema pensionistico troppo costoso: oltre il 15% del Pil italiano (quasi il doppio della media Ocse), quindi “insostenibile”.
DIRITTO ALLA PENSIONE RIDOTTO. Ma per quanto la riforma delle pensioni, molto cara a Bruxelles, abbia reso il sistema pensionistico italiano sostenibile e abbia «almeno in una certa misura, restaurato l'equità generazionale, applicando le stesse regole a tutti i lavoratori indipendentemente dalla loro età lavorativa», non si può non ammettere che «ha ridotto l'accesso al diritto a pensione»,.
Cambiando il modo in cui la pensione viene calcolata, in pratica, «viene ridotta la quantità delle pensioni future». Una riforma che quindi aggiusta ma allo stesso tempo distrugge, anche perché, «in effetti, le preoccupazioni sull'adeguatezza delle prestazioni non sono state affrontate», osservano gli analisti. Ma soprattutto le nuove regole «saranno più dannose per i lavoratori più giovani, che lavoreranno più a lungo sotto nuove regole rispetto a quelle dei più anziani».
FONDI INTEGRATIVI NECESSARI. Insomma il diritto alla pensione per le nuove generazioni resterà forse solo uno slogan: «secondo le nuove regole, i giovani italiani farebbe bene a sottoscrivere un fondo pensionistico complementare, se vogliono garantirsi un reddito che consente loro un tenore di vita dignitoso», si legge nel rapporto.
«Il nostro consiglio per quanto riguarda il diritto alla pensione è che l'Italia dovrebbe applicare la metodologia contributiva a tutti i lavoratori, anche prima della riforma, al fine di assicurare che la riforma non riguardi i giovani lavoratori più di quelli vecchi.
Inoltre, azzarda lo studio: «L'Italia dovrebbe intervenire per ridurre la quantità di pensioni di vecchiaia concesse nell'ambito di quadri giuridici precedentemente in vigore che hanno consentito ai lavoratori di andare in pensione in giovane età e con una pensione alta».
Una richiesta difficile ma non impossibile, continuano gli analisti, «ci sono ostacoli giuridici al tale intervento, ma non appaiono insormontabili».
ESODATI, L'EFFETTO COLLATERALE. Insormontabile sembra invece il danno causato dalla riforma pensionistica a quelle persone che avevano concordato un'uscita anticipata dal mondo del lavoro in cambio di uno scivolo per la pensione.
L'innalzamento dell'età pensionistica ha infatti lasciato questi cittadini nel limbo.
I diritti degli esodati sono stati così completamente calpestati. Ed è questo l'errore forse più grande della riforma, che a Bruxelles definiscono uno degli «effetti collaterali più spiacevoli»
La polizia sia identificabile: occorrono i codici unici
In Italia di effetti collaterali la crisi ne ha creati però più di uno generando un impatto negativo su alcuni diritti fondamentali che erano già poco rispettati.
Un esempio è quello alla proprietà, che ha risentito del pagamento tardivo, da parte delle autorità pubbliche, dei beni, delle opere e dei servizi  acquistati.
PAGAMENTI IN RITARDO. Le autorità pagano infatti le fatture 170 giorni in ritardo, in media. Ciò è in contrasto con i requisiti della direttiva europea, che prevede un ritardo di 30 giorni (o 60 giorni in casi eccezionali).
I ritardi di pagamento contribuiscono a ridurre la disponibilità di denaro contante per le imprese, così ulteriormente peggiorando gli effetti della crisi», osserva lo studio, e minacciando così il diritto alla proprietà.
SCONTRI NEI CORTEI Ma nonostante la crisi, a essere rimasto intatto è almeno il diritto a lamentarsi: «Il diritto di manifestazione e riunione non sembra essere stato limitato durante la crisi in misura significativa», si legge nel rapporto. «Tuttavia, ci sono stati episodi di scontri tra manifestanti e polizia che preoccupano».
Per questo lo studio della Commissione Libe consiglia all'Italia di «adottare rapidamente proposte per garantire che il personale di polizia, e in particolare la polizia antisommossa sia identificabile singolarmente mediante il nome e la qualifica, o un codice unico, reso visibile sulle loro divise e i caschi».
«POLIZIA PIÙ RESPONSABILE». Questa misura, che dovrebbe rafforzare la responsabilità della polizia, «sarebbe in linea con il Codice europeo di etica per la polizia del Consiglio d'Europa».
Ma per ora due disegni di legge per le leggi in materia di identificazione del personale di polizia - presentati davanti al Parlamento italiano nel giugno 2013 e nel febbraio 2014 - non sono ancora stati adottati e sono ancora in sospeso.
Ancora una volta è l'applicazione delle leggi in difesa dei diritti dei cittadini ad avere tempi troppo lunghi. Per questo lo studio conclude la sua analisi sollecitando ancora una volta l'istituzione di una Commissione nazionale per la promozione e protezione dei diritti umani, che darebbe così attuazione alla risoluzione dell'assemblea generale della Nazioni unite numero 48/134.
Un disegno di legge in tal senso è stata depositato a maggio 2011, ma non è mai stato approvato ed è ancora in attesa. (source)