lunedì 13 maggio 2013

LA SPERANZA DI VITA



Non è vero, come ci sentiamo continuamente ripetere dai tutti i media, nessuno escluso, che la vita media si sia allungata, negli ultimi secoli, a dismisura. I risultati di cui parlano questi commentatori sono i prodotti della media di Trilussa: nel Medioevo l’aspettativa di vita era di poco più di trent’anni per il semplice fatto che la mortalità natale ed infantile era altissima. Con i progressi dell’ostetricia e le vaccinazioni infantili di massa si è posto rimedio a questa falcidia. Un uomo, nel medioevo viveva, se superava l’infanzia, mediamente fino a settant’anni. Che in sei secoli si siano guadagnati otto anni per l’uomo e dodici per la donna non ci sembra un grande risultato. La verità è che malattie come il cancro e i disordini cardiovascolari sono aumentati esponenzialmente. L’inquinamento, dei cibi e dell’aria, ci predispone molto più frequentemente alle neoplasie, la vita vissuta con i tempi, i ritmi, e la qualità di oggi logora anzitempo le nostre arterie, generando un rischio cardiovascolare pressocchè ignoto ai tempi di Dante e Petrarca.
Inutile tergiversare, come pensavano i romani l’età anziana comincia a sessant’anni, esattamente come oggi. Con la differenza che l’anziano di un tempo era rispettato, custodito ed accudito come una ricchezza, era circondato dall’affetto e l’attenzione di tutta la famiglia, oggi, non appena compaiono le patologie più frequenti dell’età avanzata, viene scaricato al personale badante o ai famosi “istituti”, case famiglia, alloggi protetti, tutti eufemismi che nasconono una sola realtà: il buon, vecchio ospizio, un luogo senza luce e senza orizzonti, dove si vive una vita puramente fisiologica in penosa attesa dell’ultimo appuntamento, spesso vissuto in piena solitudine. E’ vero che le terapie moderne, in ambito geriatrico, permettono di allungare artificiosamente la vita di qualche mese o qualche anno, ma la qualità di tale esistenza è talmente  scadente  da permetterci, in questo caso, di parlare di “accanimento terapeutico”. Se una persona dipende completamente dagli altri, perde sostanzialmente la sua autonomia, la vita diventa per molti anziani un fardello troppo pesante da sopportare, e non dobbiamo meravigliarci se qualcuno di loro, in piena consapevolezza, ci chiede come atto estremo di amore e di pietà, di porre fine ad una vita che si confonde sempre di più con una lunga, terribile sofferenza. Sentiamo cosa pensa a riguardo il giornalista Massimo Fini:

L'Istat nel ristrutturare la composizione della popolazione italiana per fasce d'età, definisce gli over 65 'giovani anziani'. E' una caratteristica tipica di questa nostra società bizantina di mettere le parole al posto delle cose credendo cosi' di mutarne la natura. Smettiamola di prenderci in giro con questa ossessione della giovinezza a tutti i costi. I Romani che erano meno ipocriti e retorici di noi fissavano l'inizio della vecchiaia a 60 anni. E cosi' è anche oggi come sa chi abbia compiuto questo fatidico compleanno. Come immutato è il periodo di fecondità della donna, che raggiunge il suo apice a 27 anni per degradare poi e concludersi poco dopo i quaranta, a meno di non ricorrere a qualche artificio tecnologico degno del laboratorio del dottor Frankenstein.
Viviamo più a lungo, è vero. Ma non nei termini cosi' clamorosi di cui ci informano, non innocentemente, gli storici e gli scienziati, secondo i quali gli uomini nel Medioevo vivevano in media 32 anni. Ora, gli uomini e le donne del Medioevo si sposavano, in genere, rispettivamente a 29 e a 24 anni (solo nella classe nobiliare i matrimoni erano molto precoci, soprattutto per motivi di intrecci dinastici). Non avrebbero avuto quindi nemmeno il tempo di crescere i primi figli, invece ne partorivano a dozzine o mezze dozzine. Come si spiega?
Col fatto che parlare di 'vita media' di 32 anni è una statistica alla Trilussa, perchè quella società scontava l'alta mortalità natale e perinatale. Il confronto corretto, come sanno benissimo gli scienziati e gli storici moderni anche se lo nascondono, è con l'aspettativa di vita dell'adulto. Un uomo del Medioevo viveva, in linea di massima, 70 anni. Non a caso padre Dante fissa il «mezzo di cammin di nostra vita» a 35 anni. Oggi l'aspettativa di vita, in Italia, è di 78 anni per l'uomo e di 83 per la donna. Abbiamo guadagnato circa dieci anni, che comunque non è poco. Bisogna vedere pero' come li viviamo questi anni lucrati in più all'esistenza. Spesso, troppo spesso, li trasciniamo portandoci addosso malattie terrorizzanti, dolorose, umilianti, intubati, attaccati a macchine, tenuti in vita a forza dalla medicina tecnologica tanto per confortare le statistiche sulla longevità (io, come tutti, ho paura della morte, ma ho ancora più paura che i Frankenstein moderni «mi salvino»).
Ma la questione di fondo non è nemmen questa quando si parla di vecchiaia nella modernità. Nella società preindustriale il vecchio, contadino o artigiano che fosse (il 90% della popolazione), restava fino all'ultimo il capo della famiglia, attorniato dai figli, dai nipoti, dalle donne, dai numerosi bambini (oggi, in Europa, solo il 3,5% degli anziani vive con i propri figli), in una società a tradizione prevalentemente orale era il detentore del sapere, conservava un ruolo e la sua vita un senso. Oggi ( a parte alcune categorie di privilegiati:i politici, gli artisti) il sapere del vecchio è obsoleto, non conta più nulla. Scrive lo storico Carlo Maria Cipolla: «Una società industriale è caratterizzata dal continuo e rapido progresso tecnologico.
In una tale società gli impianti divengono rapidamente obsoleti e gli uomini non sfuggono alla regola. L'agricoltore poteva vivere beneficiando di poche nozioni apprese nell'adolescenza. L'uomo industriale è sottoposto a un continuo sforzo di aggiornamento e tuttavia viene inesorabilmente superato. Il vecchio nella società agricola è il saggio, nella società industriale è un relitto». Altro che 'giovani anziani'.
Massimo Fini, tratto da “Il Gazzettino”