Non è vero, come ci sentiamo continuamente ripetere dai
tutti i media, nessuno escluso, che la vita media si sia allungata, negli
ultimi secoli, a dismisura. I risultati di cui parlano questi commentatori sono
i prodotti della media di Trilussa: nel Medioevo l’aspettativa di vita era di
poco più di trent’anni per il semplice fatto che la mortalità natale ed
infantile era altissima. Con i progressi dell’ostetricia e le vaccinazioni
infantili di massa si è posto rimedio a questa falcidia. Un uomo, nel medioevo
viveva, se superava l’infanzia, mediamente fino a settant’anni. Che in sei
secoli si siano guadagnati otto anni per l’uomo e dodici per la donna non ci
sembra un grande risultato. La verità è che malattie come il cancro e i
disordini cardiovascolari sono aumentati esponenzialmente. L’inquinamento, dei
cibi e dell’aria, ci predispone molto più frequentemente alle neoplasie, la
vita vissuta con i tempi, i ritmi, e la qualità di oggi logora anzitempo le
nostre arterie, generando un rischio cardiovascolare pressocchè ignoto ai tempi
di Dante e Petrarca.
Inutile tergiversare, come pensavano i romani l’età anziana
comincia a sessant’anni, esattamente come oggi. Con la differenza che l’anziano
di un tempo era rispettato, custodito ed accudito come una ricchezza, era
circondato dall’affetto e l’attenzione di tutta la famiglia, oggi, non appena
compaiono le patologie più frequenti dell’età avanzata, viene scaricato al
personale badante o ai famosi “istituti”, case famiglia, alloggi protetti,
tutti eufemismi che nasconono una sola realtà: il buon, vecchio ospizio, un
luogo senza luce e senza orizzonti, dove si vive una vita puramente fisiologica
in penosa attesa dell’ultimo appuntamento, spesso vissuto in piena solitudine.
E’ vero che le terapie moderne, in ambito geriatrico, permettono di allungare
artificiosamente la vita di qualche mese o qualche anno, ma la qualità di tale
esistenza è talmente scadente da permetterci, in questo caso, di parlare di
“accanimento terapeutico”. Se una persona dipende completamente dagli altri,
perde sostanzialmente la sua autonomia, la vita diventa per molti anziani un
fardello troppo pesante da sopportare, e non dobbiamo meravigliarci se qualcuno
di loro, in piena consapevolezza, ci chiede come atto estremo di amore e di
pietà, di porre fine ad una vita che si confonde sempre di più con una lunga,
terribile sofferenza. Sentiamo cosa pensa a riguardo il giornalista Massimo
Fini:
L'Istat nel
ristrutturare la composizione della popolazione italiana per fasce d'età,
definisce gli over 65 'giovani anziani'. E' una caratteristica tipica di questa
nostra società bizantina di mettere le parole al posto delle cose credendo
cosi' di mutarne la natura. Smettiamola di prenderci in giro con questa
ossessione della giovinezza a tutti i costi. I Romani che erano meno ipocriti e
retorici di noi fissavano l'inizio della vecchiaia a 60 anni. E cosi' è anche
oggi come sa chi abbia compiuto questo fatidico compleanno. Come immutato è il
periodo di fecondità della donna, che raggiunge il suo apice a 27 anni per
degradare poi e concludersi poco dopo i quaranta, a meno di non ricorrere a
qualche artificio tecnologico degno del laboratorio del dottor Frankenstein.
Viviamo più
a lungo, è vero. Ma non nei termini cosi' clamorosi di cui ci informano, non
innocentemente, gli storici e gli scienziati, secondo i quali gli uomini nel
Medioevo vivevano in media 32 anni. Ora, gli uomini e le donne del Medioevo si
sposavano, in genere, rispettivamente a 29 e a 24 anni (solo nella classe
nobiliare i matrimoni erano molto precoci, soprattutto per motivi di intrecci
dinastici). Non avrebbero avuto quindi nemmeno il tempo di crescere i primi
figli, invece ne partorivano a dozzine o mezze dozzine. Come si spiega?
Col fatto
che parlare di 'vita media' di 32 anni è una statistica alla Trilussa, perchè
quella società scontava l'alta mortalità natale e perinatale. Il confronto
corretto, come sanno benissimo gli scienziati e gli storici moderni anche se lo
nascondono, è con l'aspettativa di vita dell'adulto. Un uomo del Medioevo
viveva, in linea di massima, 70 anni. Non a caso padre Dante fissa il «mezzo di
cammin di nostra vita» a 35 anni. Oggi l'aspettativa di vita, in Italia, è di
78 anni per l'uomo e di 83 per la donna. Abbiamo guadagnato circa dieci anni,
che comunque non è poco. Bisogna vedere pero' come li viviamo questi anni
lucrati in più all'esistenza. Spesso, troppo spesso, li trasciniamo portandoci
addosso malattie terrorizzanti, dolorose, umilianti, intubati, attaccati a
macchine, tenuti in vita a forza dalla medicina tecnologica tanto per
confortare le statistiche sulla longevità (io, come tutti, ho paura della morte,
ma ho ancora più paura che i Frankenstein moderni «mi salvino»).
Ma la
questione di fondo non è nemmen questa quando si parla di vecchiaia nella
modernità. Nella società preindustriale il vecchio, contadino o artigiano che
fosse (il 90% della popolazione), restava fino all'ultimo il capo della
famiglia, attorniato dai figli, dai nipoti, dalle donne, dai numerosi bambini
(oggi, in Europa, solo il 3,5% degli anziani vive con i propri figli), in una
società a tradizione prevalentemente orale era il detentore del sapere,
conservava un ruolo e la sua vita un senso. Oggi ( a parte alcune categorie di
privilegiati:i politici, gli artisti) il sapere del vecchio è obsoleto, non
conta più nulla. Scrive lo storico Carlo Maria Cipolla: «Una società
industriale è caratterizzata dal continuo e rapido progresso tecnologico.
In una tale
società gli impianti divengono rapidamente obsoleti e gli uomini non sfuggono
alla regola. L'agricoltore poteva vivere beneficiando di poche nozioni apprese
nell'adolescenza. L'uomo industriale è sottoposto a un continuo sforzo di
aggiornamento e tuttavia viene inesorabilmente superato. Il vecchio nella
società agricola è il saggio, nella società industriale è un relitto». Altro
che 'giovani anziani'.
Massimo Fini, tratto da “Il
Gazzettino”