sabato 5 gennaio 2013

NEL LAZZARETTO DI FEDERIGO



Chiunque fra noi, nell’eventualità di essere obbligato ad avvalersi delle cure di emergenza di un Pronto Soccorso non può che essere preoccupato e pieno di angoscia. Questo accade in ogni situazione ed in ogni luogo. Ma c’è un posto, nella nostra penisola, dove entrare in un ospedale contiene, per così dire, un disvalore aggiunto, una fonte inesauribile di paure e pessimi presagi. Genova è una delle più importanti città del nord Italia, nota internazionalmente per il suo acquario e per l’inaudito degrado del suo centro storico, per il suo porto sempre più improduttivo, e per essere afflitta, stretta com’è tra mare e monti, da un perenne paralizzante traffico, non essendo riuscita, in molti decenni, a dotarsi di una metropolitana degna di questo nome. Ma c’è un aspetto di questa città che la rende unica in tutto l’ambito settentrionale d’Italia: la sanità di Genova è paragonabile solo a quella delle zone più depresse ed in mano alla criminalità organizzata del nostro paese , quella di Scampia, di Cosenza o di Reggio Calabria, di Taranto o di Catania. Ci sono tre grandi Ospedali a Genova, con i pertinenti Pronto Soccorso. In tutti e tre i casi, chiunque entri, per qualsiasi ragione e qualsiasi patologia, mette a repentaglio la propria vita. Parlo anche per esperienza personale. Mio padre, 77 anni, diverse patologie tutte sotto controllo, entra all’Ospedale “Villa Scassi” per una banale enterite (una infiammazione dell’intestino), per uscirne cadavere quindici giorni dopo. Mio padre è stato ammazzato dalla Premiata Macelleria “Villa Scassi”, per la somministrazione di un farmaco sbagliato, un neurolettico dal nome assai tranquillizzante, largamente utilizzato nelle corsie ospedaliere per sedare i pazienti più rompiscatole: il “Serenase”. Si tratta di aloperidolo, un farmaco da utilizzarsi solo nelle psicosi agitate, se impiegato nei pazienti anziani o defedati può scatenare la “sindrome neurolettica maligna”, che può, in molti casi, condurre all’exitus. Il Primario di Medicina Generale, un lazzaretto che ricorda da vicino quello manzoniano della peste di Milano, voluto e più volte visitato dal Cardinale Federigo Borromeo, una delle poche menti illuminate dell’epoca, aveva disposto motu proprio, senza il mio consenso, l’autopsia della salma. Non venne fuori nulla se non l’enterite di cui parlavo. Il primario cercò così di pararsi le terga, sperando che dall’esame autoptico  saltasse fuori qualche patologia mortale, ma più che l’autopsia potè la giurisprudenza italiana. Il medico legale cui mi rivolsi e l’avvocato, di concerto, mi spiegarono che con gli anziani, in tribunale, non vince mai nessuno contro la casta dei medici. Se non sei un caso da prima pagina ti conviene lasciar perdere, perderesti comunque dopo aver subito un discreto salasso economico. In tutte le occasioni nelle quali mi sono trovato in prima persona o per accompagnare qualcuno a varcare la soglia di uno dei tre Pronto Soccorso di Genova sono stato messo di fronte all’unico scenario possibile in questa città: un clima da girone dantesco, con persone abbandonate su letti e barelle con le ruote, o sedute su seggiole che denominare “comode” suonerebbe grottesco, le anticamere gremite di una variegata umanità, per la maggioranza stranieri, visi stravolti, parole concitate, tabelloni non funzionanti, una babele di lingue e di disorganizzazione, la totale assenza di ordine e coordinamento, una anarchia pressocchè totale. In tutti i casi, è la regola, la metà circa degli astanti è costituita da immigrati stranieri, i quali non avendo un medico di famiglia, si rivolgono al Pronto Soccorso per un mal di pancia, intasandolo ulteriormente e facendo perdere tempo prezioso alle urgenze autentiche. I colori del triage vengono attribuiti spesso a capriccio: dipende dall’umore e dalla condizione umana dell’infermiere dell’accettazione. In media, per una banale distorsione o frattura, si perdono dalle sei alle otto ore, solo per fare una radiografia. Il personale, ridotto a poche unità, stressato e demotivato, ti tratta con sgarbata maleducazione, poche parole sbrigative che non lasciano spazio a risposte precise, ma a vaghe descrizioni dei tuoi sintomi che i giovanissimi medici in servizio comprendono solo per un 50%, formulando così, nella maggioranza dei casi , diagnosi perfettamente sbagliate. Se il tuo caso è serio si dispone un ricovero, ma il posto letto non è presente nel nosocomio dove ti trovi. Allora devono trasferirti in un ospedale vicino, uno dei tre della città, dove troverai gente ancora più impreparata e pressappochista che ti sistemerà in uno stanzone senza nemmeno capire appieno quello che ti sta capitando. La prima cosa che i medici faranno sarà quella, precauzionale, di sospendere immediatamente tutte le terapie che stavi facendo a casa e che, guarda caso, ti mantenevano in vita. I parenti hanno un bell’insistere sull’inopportunità di sospendere tutto, mostrando pagine zeppe di appunti con tutti i farmaci , le posologie e la frequenza di somministrazione, non otterranno che un gesto vago e fatalista, il medico di turno deciderà in piena autonomia. D’altronde i professionisti sono loro, i parenti di medicina non capiscono nulla, credono persino alla favola che sospendere di colpo tutte le terapie possa risultare dannoso alla salute del paziente! Che arroganza, invadere il campo altrui, mettere in dubbio la professionalità e la serietà deontologica dei medici ospedalieri! Che protervia! Questo è capitato a mio padre e questo ho visto regolarmente accadere in ogni altra circostanza cui ho assistito. Le strutture sono fatiscenti e completamente inadeguate, sono troppo antiche, andrebbero completamente ristrutturate o dismesse per far posto a costruzioni più recenti ed adatte  ad accogliere i nuovi macchinari. Ma non ci sono risorse, come al solito. Si tengono in piedi carrozzoni  cadenti, circhi Barnum dell’assistenza, caravanserragli sudici e maleodoranti, dove prendersi una polmonite nosocomiale è il minimo che ti possa accadere. La cosiddetta “sinistra” parla di “sanità uguale per tutti”. E no, cari signori. E’ giusto che io sia trattato come un cittadino dello Zimbabwe, senza permesso di soggiorno, che abbia le stesse cure, lo stesso identico tipo di trattamento?  Non è affatto giusto. Se dobbiamo fare economia, cominciamo a diversificare l’assistenza. Chi non ha un medico di famiglia perché clandestino deve essere respinto al mittente, chi si trova in regola con le tasse ed è un cittadino contribuente può e deve essere trattato in altro modo. La sanità uguale per tutti è un bellissimo slogan, ma nella pratica si traduce in un livellamento verso il basso, in pessimi servizi per tutti. E’ consolante sapere che per le anime belle della sinistra siamo tutti uguali, condividiamo tutti l’atmosfera da bolgia infernale, quando loro, i politicanti di sinistra, quando hanno bisogno di un intervento serio si recano nelle cliniche private del Canton Ticino. Molti tra i miei amici e conoscenti hanno addirittura il terrore di entrare in un Pronto Soccorso, nella nostra bella città. E’ un panico che anch’io condivido, perché ho semplicemente paura dello sbaglio, dell’errore fatale, compiuto da un sedicente medico che ha sulle spalle turni massacranti ed è stanco e nervoso. Entro all’ospedale per un glaucoma e ne esco orizzontale per un banale “errore tecnico” compiuto da uno sprovveduto o da un infermiere stanco e “bruciato” dal proprio stress lavorativo. Ma in che razza di mani siamo capitati? In un simile pandemonio è facilissimo che ci scappi l’errore, nella catena delle responsabilità sarà difficile venire a capo di un colpevole. Ma intanto si è perduta un’altra vita. Non parliamo poi degli anziani. Se corri a parlare con i Soloni della medicina e chiedi informazioni circa il tuo congiunto anziano, il luminare che ti trovi davanti allargherà le braccia e ammiccherà come dire “Beh, caro signore, il suo parente è un anziano, cosa pretende, è già tanto se è arrivato qui da noi”. Il Professor Regesta, primario della divisione di riabilitazione neurologica di San Martino, ha recentemente affermato in una intervista che esiste, da parte delle autorità sanitarie, Ministero, INPS e ASL, un disegno prestabilito e premeditato di abbandonare, ad un certo punto del suo percorso assistenziale, l’anziano al proprio destino. Pur di alleggerire il peso enorme costituito da questa tipologia di paziente che presenta costi sociali elevati, si ricorre, coscientemente, ad una forma di “eutanasia di stato”, mai detta e mai confessata, ma ben presente e reale per chi ha dovuto assistere un padre o una madre avanti negli anni. A questo punto siamo arrivati. Se le risorse non ci sono, allora privatizziamola questa benedetta sanità. Non sarà ideologicamente corretto, ma non vedo alternative. Se non vogliamo tutti, extracomunitari ed italiani, giovani e anziani, languire nei lazzaretti di stato, cominciamo a diversificare le prestazioni. Chi se lo può permettere pagherà un ragionevole ticket sulle prestazioni o su di un eventuale ricovero, in proporzione all’entità della prestazione erogata e al reddito dell’assistito. Per chi non  possiede mezzi o per gli stranieri privi di medico di base, sarà garantita una prestazione minima di base, paragonabile a quella fornita adesso, indistintamente a tutti quanti. E’ triste pervenire a conclusioni del genere, non lo nego. Ma non possiamo seguitare ad ignorare l’enorme buco nero costituito dal Sistema Sanitario Nazionale: un malato di cancro costa, per una terapia completa e ammesso che sopravviva alle terapie medesime, dai 50.000 ai 100.000 euro. Una fiala per un anticorpo monoclonale, utilizzato in quasi tutte le forme di cancro può arrivare a costare al S.S.N. fino a 2.000 euro. Una sola fiala. Occorre mettere ordine in questo far west, stabilire un sistema di pesi e contrappesi. Chi può deve poter pagare le prestazioni e avrà diritto ad un trattamento più umano e magari esente de grossolani errori, chi non può permetterselo avrà ugualmente diritto alle prestazioni minime, se non altro in un regime di maggiore organizzazione e coordinamento, con medici meno stanchi e  stressati e personale più motivato e incentivato. Se questo non accadrà, potete star certi che la prossima volta che entrerete in uno dei tre famosi Pronto Soccorso la reazione a quello che vedrete sarà molto somigliante al panico che coglie colui che teme di subire un intervento senza anestesia.