Il Giappone ha il 236% del
debito/Pil e un deficit/Pil al 10%. Numeri che farebbero impallidire Angela
Merkel, i trattati di Maastricht, Lisbona e compagnia bella. E cosa fa il
premier Shinzo Abe? Ha annunciato poche ore fa un ulteriore piano di espansione
della spesa pubblica con un primo intervento da 85 miliardi di euro. Insomma,
del mantra europeo dell' austerity dalle parti di Tokyo non c'è neanche l'ombra.
Ma come mai il Giappone - che resta
la terza economia del pianeta e può esibire un tasso di disoccupazione del 4,5%
contro l'11% europeo - può permettersi di far galoppare la spesa pubblica pur
convivendo da tempo con parametri di indebitamento molto simili a quelli della
Grecia? Non solo: lo stesso plurindebitato Giappone può permettersi di
finanziare il debito pubblico americano (facendo carry trade, ovvero pagando
interessi inferiori all'1% su titoli a 10 anni ai detentori dei titoli
nipponici e ricevendo quasi il 2% dal Tesoro Usa) e quello europeo (il Giappone
si è detto pronto ad acquistare titoli emessi dal Fondo Salva-Stati ESM). Come
mai?
Perché rispetto alla Grecia, o a un
qualunque Paese dell'Eurozona, ha almeno due cartucce in più da giocare: la
possibilità di stampare moneta della Bank of Japan e la protezione del debito
pubblico da parte dei cittadini e degli investitori interni che ne detengono la
quasi totalità.
Della possibilità di stampare moneta
e quindi del ruolo di prestatore di ultima istanza da parte della Bank of Japan
(facoltà condivisa, tra le varie, con la Federal Reserve statunitense, la Bank
of England e la Banca centrale svizzera) si è più volte parlato. Così come si è
parlato del fatto che la Banca centrale europea non contempla questa
possibilità, nonostante abbia attuato nel corso del 2012 misure ibride di
intervento come lo scudo anti-spread (che agisce sul mercato secondario) o
l'attivazione del fondo Esm (che può tecnicamente acquistare titoli di Stato
sul mercato primario qualora un Paese chieda esplicitamente aiuto).
Il principale rischio per un Paese
dove la rispettiva Banca centrale stampi moneta all'occorrenza per sostenere la
crescita (come peraltro la Federal Reserve ha già fatto tre volte dopo il
collasso di Lehman Brothers annunciando tre piani di quantitative easing) è di
alimentare potenzialmente l'inflazione.
Anche se non è un'equazione
scontata. Ad esempio negli Stati Uniti dal 2008, dopo tre piani di allentamento
monetario (l'ultimo dei quali prevede che la Fed stampi 40 miliardi di dollari
al mese per un periodo indefinito), l'inflazione non è andata oltre il 3,8% del
2008 (favorendo peraltro una ristrutturazione gratuita del mastodontico debito
pubblico americano, oltre 16mila miliardi di dollari) dato che i tassi nominali
che il governo Usa paga sui titoli a 10 anni sono inferiori al 2%.
Che non sia un'equazione scontata lo
dimostra anche quando accade in Giappone, dove da tempo la Banca centrale
persegue politiche di allentamento monetario, vive paradossalmente con lo
spettro della deflazione (dal 1997 al 2011 i prezzi sono scesi dello 0,08%
secondo dati Eurostat).
E veniamo all'altra arma su cui il
Giappone plurindebitato può contare rispetto a un Paese dell'area euro: il
debito pubblico è detenuto quasi totalmente al suo interno. Questa dinamica
offre il fianco a due vantaggi: 1) è tecnicamente inattaccabile dalla
speculazione di investitori stranieri; 2) permette ai cittadini di vivere in
uno strano, ma potenzialmente armonioso, equilibrio in cui siano loro stessi
attraverso i propri risparmi investiti a finanziare la spesa pubblica.
Ovviamente, non ci sono solo pro. Tra gli aspetti negativi dell'enorme
"debito pubblico interno" del Giappone c'è la minor liquidità
rispetto a un debito aperto a una platea più variegata di investitori. E,
soprattutto, su questo debito incombe una spada di Damocle: la demografia. La
gran parte della ricchezza dei risparmiatori giapponesi investita nel debito
interno è in mano a baby boomers, coloro che sono nati tra gli anni '40 e '60,
molti dei quali sono prossimi alla pensione: momento in cui – Come ricorda
Zingales- smetteranno di risparmiare e inizieranno a spendere. E, a quel punto,
il debito giapponese potrebbe aprisi agli investitori internazionali che, a
fronte di un debito pubblico pari al 236% del Pil, potrebbero chiedere un
interesse maggiore rispetto allo 0,82% pagato attualmente. Mettendo a
repentaglio la sostenibilità del debito.
E questo ragionamento ci porta a
quello che sta accadendo adesso in Italia. Lo spread tra BTP e Bund è
letteralmente crollato da luglio (quando il governatore della Bce Mario Draghi ha
lanciato lo scudo anti-spread) passato da un picco di 538 a un minimo a 236.
Secondo le ultime stime degli addetti ai lavori, dallo scorso novembre il flusso
degli investimenti esteri sul debito pubblico - che durante la crisi, stando ai
dati Bankitaila, è calato dal picco del giugno 2011 a quota 813 miliardi fino
ai 671 di ottobre 2012 - è stato positivo.
Un dato che si sposa con le
dichiarazioni di rinnovata fiducia degli investitori stranieri sull'Eurozona e
sul debito italiano (fra cui quella di Pimco, il maggior gestore al mondo di
fondi obbligazionari, che a novembre ha annunciato di vendere titoli francesi e
tedeschi rimpiazzandoli con quelli italiani e spagnoli). I mercati provano ad
anticipare la ripresa economica che potrebbe esserci a partire dal 2014 mentre
nel frattempo i dati del 2012 sono negativi (oggi l'Ocse ha pubblicato il Pil
del terzo trimestre con Italia maglia nera d'Europa a -0,2%)
Riproduzione
riservata © - Il Sole 24 ore