Da oggi non esiste più il Pd, ma il partito della Leopolda di Matteo Renzi: o con me o contro
di me. Quando si spengono le luci della kermesse fiorentina e il palco che
ricorda il garage di Steve Jobs viene
preso d’assalto, la sensazione che più di un sostenitore si lascia scappare è
la seguente: “Noi a questo punto rispettiamo Alfano
e Berlusconi piuttosto che Fassina e company. Questi
ultimi rovinano il nostro paese. E i discorsi della Bindi fanno vomitare. Evviva
Matteo” . Quaranta minuti di intervento per quaranta secondi di applausi
segnano la conclusione della quinta Leopolda targata Matteo Renzi. In uno speech in cui si non ricorda un attacco a
Silvio Berlusconi, ma soltanto
frecciate al veleno nei confronti del sindacato e
della sinistra democratica. La
Leopolda 2.0, quella della maturità, quella di “Matteo
al governo“, registra il cambio di passo: dal Pd al PdL, nel
senso di partito della Leopolda. Perché “noi non saremo un partito di reduci e non
permetteremo a quella classe dirigente di riprendersi il Pd per riportarlo dal
41 al 25 per cento”. Gli applausi si sprecano.
Una fase storica è stata
archiviata nello scampolo di cinque anni.
Cinque anni in cui il giovane sindaco di Firenze ha scalato
tutti i vertici istituzionali approdando, infine, a palazzo Chigi. Cinque
anni in cui una giovane consigliere comunale di Laterina, come Maria Elena Boschi, da
volontaria alla kermesse del 2011 è arrivata a guidare il dicastero delle Riforme e dei Rapporti con il Parlamento.
“Sono una di voi, chiunque ce la può fare”, è il messaggio che la giovane
ministra strilla dal palco a forma di garage. Scorrono le immagini delle
precedenti edizioni, la Leopolda del Big
Bang, la Leopolda del 2012, quella del 2013, infine quella
degli ultimi tre giorni. La platea
si esalta perché ricorda attimi di vita vissuta.È il turno del premier-segretario quando le migliaia di persone che affollano la vecchia stazione fiorentina si alzano in piedi. Perché “se non ci fosse stato lui, Matteo, avremmo avuto ancora Bersani e D’Alema“. La platea non si riconosce affatto nella vecchia guardia, molti di loro confessano di non possedere la tessera del Pd perché “il Pd di Renzi è un’altra cosa”. È una platea addestrata, che sorride alle battute dell’ex sindaco, “ma quando le prepara, la notte?”, si domanda un giovane milanese alla sua prima Leopolda perché “prima votavo Berlusconi“. Non ci sono infatti bandiere del Pd, e quando un signore ne tira fuori una dalla borsa e la sventola, il capo dell’esecutivo si lascia scappare: “Non ti preoccupare accogliamo anche te”.
Ecco, in cinque anni dai
moniti sulla rottamazione con cui Renzi
voleva mutare il Pd si è giunti ad un’altra cosa. Il PdL, il partito della
Leopolda. “Guardi come sono vestite le persone – fa notare a
ilfattoquotidiano.it un signore di mezza età – I ragazzi non indossano le clarks ma le hogan, le ragazze hanno le
borse griffate. E poi tutti questi giovani non sarebbero mai andati a una
convention di Bersani”. Insomma, tornare indietro non è più possibile perché il
PdL è diverso rispetto alla ditta. E “noi
– scandisce il premier – non consentiremo che il Pd sia trasformato nel partito dei reduci. Noi saremo
il partito dei pionieri, non quelli del museo
delle cere, ma del futuro e del domani”. E non importa che nel partito di
domani trovano spazio personaggi della Prima Repubblica come Beppe Fioroni, ex ministro e
vecchio arnese Dc, o chi come Salvatore Cardinale,
presente in sala con la figlia parlamentare, è stato ministro nei due governi
di Massimo D’Alema.
Il PdL è inclusivo ma non
accetta il dissenso. E in un passaggi
chiave del lungo intervento il premier sottolinea che “non ho paura che a
sinistra si crei qualcosa di diverso si sta a vedere se essere di sinistra vuol
dire stare aggrappati alla nostalgia o
provare a cambiare”. Del resto il partito della Leopolda, costruito in questi
lunghi cinque anni a colpi di
rottamazione e slogan di Oscar Farinetti
e Davide Serra, è ormai entrato
nelle corde degli italiani con il 41 per cento ottenuto alle europee dello
scorso maggio. Ma la sinistra Pd
non ci sta. E in un’intervista all’Huffington Post Stefano Fassina dice che “una
scissione molecolare è in atto. Ieri abbiamo incontrato molte persone che ci
hanno detto che hanno lasciato il Pd. Oggi dico
che la dovremmo evitare. Ma è il presidente del Consiglio
che alimenta la contrapposizione, ricercando un nemico”. (source)