Ogni volta che incontro una
persona con la quale non scambiare le solite banalità, ma, anzi, è possibile
approfondire taluni discorsi, mi sento regolarmente domandare: “Ma secondo te,
che senso ha la vita?” La richiesta viene fatta al sottoscritto per il semplice
fatto che si presume che un licenziato in Teologia abbia una risposta pronta,
esauriente e ben confezionata. Purtroppo non è così. Il tema del significato,
dello scopo, in ultima analisi del senso della vita rimane un discorso aperto,
complesso, forse il più arduo degli argomenti possibili. Non ho verità
precostituite o formule speciali che mi abbiano trasmesso i miei studi, che,
semmai, hanno contribuito a complicare le cose. La risposta che non ho mai dato
a nessuno è, infatti, “la fede è colei che dà il senso all’esistenza umana, le
fede in un Dio provvido e in un aldilà da Lui creato”. La Fede non è il senso
della vita, neppure per chi la possiede. E qui occorre fare una prima,
doverosa, distinzione: possiamo pensare che esiste un senso oggettivo della vita ed uno soggettivo. Se l’approccio al discorso
è di tipo antropologico soggettivo, allora la risposta potrebbe essere: “per
chi ha fede, Dio costituisce lo scopo ultimo dell’esistenza, Lui e la nostra
anima immortale”. Ma, teniamo sempre presente, che, come tutti gli oggetti di
fede cieca ed assoluta, si tratta di una conclusione irrazionale, contraria
alla scienza, all’astronomia e alla fisica, qualcosa che va al di là della
ragione. Non esiste un solo tipo di fede. Ce ne sono almeno tante quanti sono
coloro che asseriscono di possederla. La fede più profonda e più vera è quella
che si nutre anche di dubbio, oltre che di certezze. Dio non si è mai
manifestato agli uomini, e molte delle verità oggetto di dogma, con l’evoluzione
della scienza, in particolare della fisica e dell’astrofisica, si sono dovute
modificare nel corso dei secoli. Il cristiano, o il buddista, o il mussulmano
ecc. deve accettare la propria fede come qualcosa di non immutabile, ma che
deve necessariamente lasciare un certo margine al dubbio, finanche allo
scetticismo. Esiste poi un altro senso che si può attribuire all’esistenza che
potremmo definire oggettivo. In questo caso, la fede viene relegata nell’angolo
della soggettività e della scelta personale e possono entrare in gioco aspetti
dell’uomo quali l’ateismo, il deismo, il nichilismo ecc. Il senso oggettivo
della vita deve essere qualcosa di universalmente riconosciuto come tale, anche
dagli atei più convinti. D’altra parte, esistono persone, come Corrado Augias o
Eugenio Scalfari che, pur professando un aperto ateismo, possiedono una grande
spiritualità. Proviamo allora, alla luce di questa prima distinzione a dare
qualche risposta. Potremo anzitutto affermare che la vita è fatta di tanti
piccoli segmenti, quasi fosse una retta suddivisa in molteplici porzioni che
costituiscono gli avvenimenti, gli eventi che ci vedono protagonisti, qualche
volta consapevoli, più spesso inconsapevoli soggetti passivi. Una simile
concezione della vita, così ripartita, attribuisce il senso non all’esistenza
tout court, ma a ciascun segmento. Viviamo la vita attimo per attimo, e il senso di quello che facciamo è dato
dalla circostanza che in un determinato periodo di tempo ci troviamo a vivere.
Ma questa non è una risposta alla domanda fondamentale, è solo un’assegnazione
parziale di significato a quello che viviamo giorno per giorno. Se, invece,
vogliamo allargare il discorso, e cercare un senso più generale alla vita, potremo,
come fanno molti, ricorrere alla natura, nei suoi più variegati aspetti. Un bel
tramonto, una splendida aurora, il riso di un bimbo, l’affetto di un amico, taluni
spettacoli naturali potrebbero essere incomodati per far scaturire in noi un
sentimento di gioia, se non di felicità, che darebbe, almeno parzialmente, un
significato alle nostre vite. Ma, ovviamente, non è così. La natura è spietata,
vige la legge fondamentale del più forte che sbrana il più debole, e anche tra
noi uomini non vi sono eccezioni, L’”homo homini lupus” rende bene l’idea. Ci
divoriamo come cani rabbiosi, alla ricerca della propria soddisfazione
egoistica. Il richiamo alla natura non costituisce una risposta soddisfacente.
D’altronde non sono molti quelli convinti di essere venuti al mondo per
compiere una missione, per dedicarsi al prossimo, per donare tutti se stessi ad
una buona causa. Anche questa è una visione insufficiente. Né possiamo, come
hanno fatto molti poeti, incomodare l’amore. L’uomo è incapace, per sua natura
stessa, di amare senza ricevere nulla in cambio. Un amore simile è solo divino.
Amare spassionatamente e disinteressatamente non appartiene alla nostra natura
corrotta. Quando facciamo il bene lo facciamo sempre in base ad un tornaconto,
ancorchè spirituale: per compensare e
bilanciare una colpa nascosta, per mostrare agli altri uomini quanto siamo
santi, per meritarci il Paradiso dopo il cammino terreno. Anche questa è una
risposta non soddisfacente. E allora, non esistono risposte? Forse sì. Il senso
della vita deve attenere unicamente ad un discorso e ad un ambito puramente
filosofico, per non essere oggetto di fede. Se l’approccio è di tipo
filosofico, appunto, la risposta non può che essere una. La vita non ha senso. O, meglio, ha il senso che ognuno di noi, con
risultati diversi e spesso disastrosi, riesce ad attribuirle. Si potrebbe anzi
dire, parafrasando il discorso di Eugenio Scalfari su questo tema, che “il senso della vita è la vita”. Non è
un discorso semplicistico, come può apparire ad una prima analisi. La vita ha
senso di per se stessa, per il solo fatto di esistere. Non ci sono motivazioni
articolate o altisonanti, la risposta è più semplice, e quindi più vera perchè
evita sofismi e inutili complicazioni: siamo venuti al mondo, non lo abbiamo
richiesto espressamente noi, qualcuno ci ha scaraventato in questa terra, ci ha
condannato a vivere una vita popolata di disgrazie, sventure, amori disperati,
dolori, sofferenze fisiche e spirituali, grane di ogni tipo, seccature e complicazioni,
ansie, depressioni e via discorrendo. Ogni tanto, una pausa. Il cielo si
rasserena sopra il nostro capo e il sole può finalmente fare capolino. Questi
brevi pause in un mare di dolore ed insoddisfazione, costituiscono le gioie, le
gratificazioni, le piccole o grandi soddisfazioni, che ogni tanto ci regale
l’esistenza. Ma sono solo parentesi. La vita non è un giardino fiorito, un eden
sulla terra, si vive poco e male, quante sono le vite spezzate da un male
inesorabile, quante le delusioni, i disinganni, le amicizie finite, gli amori
sbagliati. Per chi si professa cristiano o comunque possiede una scintilla di
spiritualità religiosa è possibile però pensarla diversamente. Tutto quello che
da questa parte, in questo mondo, è imperfetto, ingiusto, incompiuto,
dall’altra parte, in un ipotetico aldilà, può e deve essere portato a
perfezione, giustificato, essere portato a compimento. Non è un ragionamento
fideistico perché non va contro la ragione. Sarebbe irragionevole pensare il
contrario. Tutti gli esseri umani nascono con idee, con assiomi o assoluti
innati, connaturati con l’uomo. Abbiamo in noi il senso del giusto e dell’ingiusto,
il discernimento del bene e del male, tutti aneliamo ad una perfezione che è
ben lontana dal realizzarsi in questo mondo, fatto solo di malvagità e a volte
persino beffardo. Queste idee innate, si direbbe platoniche, ci fanno pensare,
per induzione, all’esistenza di una Giustizia di Dio, una dimensione in cui
trionfa la verità, in cui tutte le distorsioni di questo mondo vengono corrette
e raddrizzate. Verrà un giorno la
Giustizia di Dio, e noi potremo tornare al nostro principio, chiudendo così
il cerchio della vita. Tornare al Padre celeste che ci attende per ristorarci e
sollevarci da tutto quello che abbiamo patito in questa vita che altrimenti
sarebbe solo una crudele assurdità. Non è una spiegazione definitiva, non può
accontentare coloro che sono atei fino in fondo, ma non è neppure una
spiegazione del tutto irrazionale. La fede non deve mai opporsi alla ragione,
diventerebbe pura astrazione, superstizione, una verità consolatrice che cerca
di dare un senso ad una morte sicura. Il discorso rimane aperto, ma, in
conclusione, possiamo dire che per gli atei convinti, il senso della vita è la
vita stessa, per chi possiede un’ anima religiosa, il senso della vita è
tornare al principio, incontrare il Padre che ci accoglie e ci dona la vita
eterna. Le nostre povere forze non ci consentono risposte più articolate, i
nostri limiti, in ultima analisi, non ci permettono una risposta definitiva, ma
una continua ricerca della risposta. Forse, anzi, il senso della vita consiste proprio
nella ricerca di questo senso, come la ricerca del Santo Graal non era il
ritrovamento della coppa che ha contenuto il sangue di Cristo, ma il significato ultimo della ricerca di qualcosa di leggendario, che forse era stato raccolto e conservato da Giuseppe di Arimatea, consisteva appunto nella ricerca
stessa e nel viaggio che la accompagnava, che era anzitutto un viaggio della coscienza in un panorma che non era altro che la proiezione di un paesaggio interiore.