mercoledì 9 agosto 2017

LA BRUTALE VERITA' SULL'ECONOMIA ITALIANA



Il meccanismo industriale europeo si è riattivato. Quello italiano, no. I dati Eurostat sono chiari. La Germania macina – continua a macinare, visto che ha azzerato del tutto ormai da quattro anni la voragine originata dalla Grande Crisi del 2008 – fatturato e utili, distribuisce dividendi e crea posti di lavoro. La Francia, che in questi anni ha avuto per noi una funzione consolatoria perché in molti comparti manifatturieri ha arrancato di più, ha rimesso in moto una economia semi-statale che ha ostinatamente perseverato nel culto della grande impresa e una economia privata assistita dalla mano pubblica e strenuamente aggrappata alla stessa dimensione di impresa.
L’Italia, invece, resta nel fossato profondo scavato nel nostro Paese – e nelle economie strutturalmente più deboli – dalla crisi finanziaria di dieci anni fa, che si è fatta disagio industriale e malessere sociale, fino a condurre all’attuale poco aurea mediocritas. Da questo fossato, l’Italia prova a uscire: si aggrappa alle sterpaglie, mette un sasso sull’altro e tenta di salirci sopra, riesce a fare spuntare il naso per annusare il profumo della crescita vera, non quella da zerovirgolaqualcosa, ma poi torna a cadere.
I dati sono, appunto, eloquenti. Fatta 100 la produttività nel 2010, il nostro Paese è piantato a 100,3 punti, mentre la Germania è a 105,7 punti e la Francia è a 108,1 punti. In subordine, la nostra minorità è confermata dall’ultima rilevazione tendenziale mensile della produzione industriale che mostra una crescita di cinque punti percentuali per la Germania, di poco meno di due punti per la Francia e di un solo punto per l’Italia.
A questo punto, occorre dire le cose come stanno. Nella sua natura più profonda, il nostro Paese ha una serie di problemi che stanno diventando cronici. Prima di tutto la polarizzazione 20-80, con il 20% delle imprese che sviluppa l’80% del valore aggiunto e a cui si deve l’80% dell'export, si sta cristallizzando; l’élite delle nostre aziende, che ottiene ottimi risultati sui mercati internazionali, non riesce ad assumere la leadership della nostra economia.
E, su questo, dobbiamo interrogarci tutti: probabilmente ciò accade anche perché questa minoranza virtuosa coltiva un rapporto quasi di rifiuto o almeno di riduzione del danno rispetto al Paese di origine, cioè l’Italia. Un Paese che continua ad avere illegalità diffusa e costo dell’energia di un terzo superiore al livello della media europea, tribunali civili ingolfati e una insana passione per la sottocultura del «non nel mio giardino», secondo cui gli effetti dello sviluppo vanno bene a patto che si concretino a casa degli altri.
Il secondo problema è di tipo politico. O, meglio, di politica economica e industriale. Gli incentivi messi a disposizione dal Governo Renzi hanno costituito una base finanziaria importante per le nostre imprese: il super e iperammortamento, il credito di imposta per la ricerca e la proroga per la Nuova Sabatini valgono una decina di miliardi di euro con un impatto di finanza pubblica che dura sette anni.
Non sono pochi soldi, soprattutto in uno Stato che ha conti pubblici deficitari. A questo punto, però, occorre iniziare una riflessione. Queste risorse, per quanto nella loro fase iniziale di erogazione, hanno senz’altro rivitalizzato la nostra manifattura. Ma non hanno attivato alcun processo di cambiamento della sua natura. Non hanno provocato processi di crescita. Non hanno causato mutamenti della specializzazione produttiva. Non hanno favorito slittamenti verso l’alto nelle catene globali del valore. O, se lo hanno fatto, è accaduto a singole imprese o a specifiche filiere o a ben determinati territori. Ancora una volta: tutto questo non è diventato un metodo e non si è trasformato in una metamorfosi sistemica. Il gas si è diffuso.
Ma non ha fatto esplodere la crescita. Per questa ragione, non si può non tornare a fare una valutazione sul tema della tassazione finale dei risultati di impresa e sul più generale livello del cuneo fiscale. Il terzo problema che pone il ritmo differente delle tre manifatture – l’italiana, la tedesca e la francese - è quasi di ordine culturale. Ed è il problema della struttura produttiva italiana. Negli anni Novanta, quando è andato in crisi il paradigma della grande impresa di matrice Iri e hanno iniziato a ritirarsi le famiglie del capitalismo privato del secolo scorso, in molti hanno sperato che le piccole e le medie aziende potessero assumere un ruolo di leadership, economica e sociale. Nei primi anni Duemila, l’introduzione dell’euro ha portato a una selezione delle imprese.
Poi, c’è stata la grande crisi. E, adesso, la nostra economia procede con questo meccanismo della polarizzazione infelice 20-80, che non è riuscita a diventare l’Orsa Polare di una galassia – l’industria italiana – che ha diversi pianeti e molte meteore, ma pochi grandi soli.
In ogni sistema industriale complesso, il grande sole è rappresentato dalla grande impresa. L’industria tedesca è fatta di una serie di grandi gruppi. Quella francese anche. La nostra specializzazione produttiva basata sulle piccole e medie imprese è importante. Ha permesso al Paese di non collassare negli ultimi venti anni. Ha fornito una identità alternativa, mentre il cuore culturale e economico del Novecento si stava spegnendo.
A questo punto, però, la distonia con gli altri due Paesi leader dell’Europa industriale, la Francia e la Germania, e l’eccessiva lentezza con cui l’Italia sta uscendo dal fossato scavato dalla recessione iniziata nel 2008 dicono una cosa molto chiara: l’assenza di un nutrito novero di grandi imprese abbassa la capacità di innovazione generale e riduce la forza del Marchio Italia.
Le grandi imprese garantiscono strutturalmente alcuni elementi essenziali per la vita di un sistema economico: hanno un effetto traino per le piccole e medie imprese sui mercati internazionali in cui, nonostante venti anni di globalizzazione, conta non solo il prodotto ma anche la forza persuasiva di una Nazione nel suo insieme; sviluppano Ricerca e Sviluppo formalizzata di alto livello che, poi, si trasferiscono per processo osmotico alle piccole e medie aziende; creano piattaforme logistica che servono a promuovere e a veicolare i prodotti nazionali.
L’automobile della Germania e la grande distribuzione della Francia. L’automazione tedesca e la moda francese. Le grandi imprese non nascono in provetta. Servono senz’altro politiche economiche che rendano vantaggiosi i processi di fusione. E serve anche un cambiamento di mentalità nella classe imprenditoriale italiana. Perché piccolo – o, meglio, soltanto piccolo – non è più bello.
Paolo Bricco – Il Sole 24 ore