Purtroppo non possiamo farci
molte illusioni. Il terremoto scatenato dalla Brexit venerdì 24 giugno è stato
il peggiore di sempre, almeno per Piazza Affari. Le principali banche italiane
hanno perso in una sola giornata un quarto della propria capitalizzazione. In
un solo giorno. Scozzesi e Irlandesi del nord sono pronti a trattare una
permanenza nella UE, ma la questione è tecnicamente complicata: occorrerebbe
indire due ulteriori referendum per disintegrare il Regno Unito, che perderebbe
sia la Scozia che l’Irlanda del Nord. Ma si tratta di una strada difficilmente
praticabile. Si potrebbe ripetere il referendum se la petizione partita da
Londra dai fautori del “remain” raggiungesse parecchi milioni di aderenti.
Teoricamente è possibile, per la legge inglese ripetere una consultazione
popolare se milioni di cittadini lo richiedono e vi sia una giusta causa è una
motivazione sufficiente. Vedremo. Ma, intanto,
stando così le cose, non possiamo che attenderci lo scenario che segue:
1) I mercati mondiali si
allontaneranno dall’eurozona, non considerata più sicura e irreversibile,
rivolgendo la propria attenzione ad altre piazze, come quella asiatica,
americana e sudamericana. Il tempo contemplato dai trattati UE non ci aiuta,
perché l’uscita di un paese necessita di anni di negoziati, un tempo talmente
lungo da rendere sempre più probabile il break up dell’euro e la dissoluzione
dell’Unione. Le più bersagliate dalla speculazione e dagli investitori,
soprattutto istituzionali (e quindi più potenti), sono proprio le nostre
banche, considerate da sempre l’anello debole della catena finanziaria
italiana. Sono troppo esposte in titoli di stato, in derivati e, soprattutto in
NPL (Non performing loans), quei crediti inesigibili, quelle sofferenze che rendono
un istituto di credito estremamente vulnerabile. La conseguenza di tutto questo
è che, per cercare di evitare il default, le banche chiuderanno il rubinetto
del credito, alle imprese e alle famiglie. Senza credito il mercato immobiliare
si ferma del tutto e la produzione industriale rallenta di parecchio. Si
ritorna in deflazione: si abbassano i prezzi, le industrie cercano di svendere
quello che hanno in magazzino, ma il consumatore attende che i prezzi scendano
ulteriormente, alimentando un circolo vizioso. Quando le aziende hanno venduto
sottocosto quello che era stoccato, si ferma la produzione, e con esse
l’economia di un paese. Con produzione e consumi ridotti al lumicino, l’Italia
entra nuovamente in recessione.
2) Le banche meno capitalizzate
o con requisiti patrimoniali non adatti a reggere un simile shock dei mercati,
sono destinate a fallire. Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Monte dei Paschi e
Carige saranno le prime ad arrendersi. Si scateneranno corse forsennate agli
sportelli per cercare di salvare il salvabile, ma il meccanismo del “bail in”
si attiverà ugualmente. Centinaia di migliaia di cittadini vedranno andare in
fumo i loro risparmi: dapprima gli incauti azionisti, poi gli obbligazionisti
subordinati, quindi i senior, e, alla fine, dovranno essere intaccati gli
stessi depositi. Ci sarà un effetto domino, le banche più vulnerabili faranno
saltare il banco, ma questo non vuol dire che saranno messe tutte in
liquidazione. I maggiori istituti, quelli sistemici, quelli troppo grandi per
fallire, (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Popolare, Ubi Banca)dovranno
ridimensionare fortemente la loro presenza sul territorio e privarsi di buona
parte del personale, chiudendo molte filiali, anche all’estero. Diventeranno,
in una parola, delle banche di media grandezza, con la conseguenza di non
rappresentare più un porto sicuro dove il risparmiatore può approdare. Il
materasso tornerà in gran auge, per chi non possiede coronarie di ferro.
3) La scossa che i premier
europei dicono di voler imprimere all’Unione dopo lo schock della Brexit è una
stupidaggine senza limiti. Non cambierà un bel nulla nelle politiche monetarie
e finanziarie del continente europeo. Gli egoismi, soprattutto della Germania,
sono destinati a durare, e ognuno cercherà di cavarsela come può, senza
comprendere che il segnale della Brexit è una occasione unica per modificare
l’atteggiamento fin qui perseguito. Il rigore nei conti è servito solo ad
emarginare sempre più proprio quelle persone, quelle fasce di reddito che hanno
votato, in Gran Bretagna, per l’uscita. Il famoso rapporto deficit/PIL non
considera il risparmio privato ma solo il Prodotto interno Lordo. E’ un grave
errore, l’Italia sarebbe ai primi posti, con Francia e Germania se venisse
conteggiato questo importante indicatore. Ma all’Europa dei nazionalismi questo
ed altro non interessa. I singoli stati non saranno in grado di guardare al di
là del loro limitato orizzonte e continueranno a farsi la guerra invece di
consolidare ancor più l’eurozona,
dividendo equamente sacrifici e benefici, facendo della solidarietà la cifra
comune dell’Europa.
In conclusione, a meno che non
si ripeta il referendum britannico, gli anni che ci attendono saranno peggiori
di questi ultimi otto (dal crack della Lehman Brothers in poi), e saranno
peggiori perché i burocrati di Bruxelles non riusciranno mai a mettersi
d’accordo su nulla, continueranno, al di là dei proclami ufficiali, a farsi una
guerra tra poveri, provocando o accelerando l’implosione dell’euro e la fine
dell’Unione. Tanto varrebbe, con i movimenti populisti anti euro in costante
crescita, uscire ordinatamente dalla moneta unica, uno per uno, in fila
indiana, cercando di limitare così gli scossoni inevitabili causati da un
ritorno alle valute nazionali. Ma, statene certi, l’establishment di Bruxelles
non sarà in grado neppure di fare una cosa così semplice. Si sbraneranno come
cani rabbiosi, e a rimetterci, come sempre, saranno le fasce più deboli della
popolazioni, che, con l’aggravarsi della recessione, vedranno le proprie fila
ingrossarsi da quello che una tempo, tanti anni fa, era il ceto medio. (R.T.)